I Problemi dell’Italia (Rubrica Breve) – La disoccupazione

Salve, la terza puntata della mia rubrica si occuperà dell’ennesimo problema della nostra cara Nazione : la disoccupazione.

PUNTATA NUMERO 3 – LA DISOCCUPAZIONE

Innanzitutto si definisce disoccupazione, la condizione in cui si trovi un soggetto in età di lavoro che non sia una forza attiva nel mondo del lavoro, le possibili situazioni sono quelle di:

  1. una persona che cerchi attivamente un impiego ma non riesca a trovarlo.
  2. una persona che ha perso il lavoro che svolgeva (disoccupato in senso stretto).
  3. un soggetto in cerca della prima occupazione.

Analizziamo un po’ di dati : Il tasso di disoccupazione a marzo risale all’11,7%, in aumento di 0,1 punti rispetto a febbraio e di 0,2 punti rispetto a marzo 2016. I disoccupati nel mese erano a quota 3,022 milioni: 41mila persone in più rispetto a febbraio e 88mila rispetto a marzo 2016. Si tratta di un dato legato principalmente al calo dell’inattività (-0,1 punti), che a marzo era al 34,7%: più persone hanno cercato lavoro, ma non tutte sono state assorbite dalle imprese tricolori. Da segnalare la particolare crescita dei senza lavoro tra gli over 50, balzati dell’11,5% mensile e del 22,3% annuo. Per la prima volta dall’inizio delle serie storiche mensili del 2004, a marzo i disoccupati con più di 50 anni hanno superato in numero i disoccupati giovani. Molti dicono che si tratti di una delle conseguenze dell’aumento dell’età pensionabile, del tipo che molti si ritrovano disoccupati e non sono ancora in età pensionabile.

Se si guarda all’andamento degli occupati, c’è una lieve diminuzione (7mila persone) su marzo dovuta alla componente femminile, mentre c’è un miglioramento di 213.000 unità su marzo 2016. Il tasso di occupazione a marzo era al 57,6%, invariato su febbraio e in crescita di 0,6 punti su marzo 2016.

La disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni a marzo era al 34,1% ai minimi dai cinque anni: per trovare un dato più basso bisogna risalire a febbraio 2012 (33,4%). Il tasso di senza lavoro cala di 0,4 punti su febbraio e di tre punti su marzo 2016. Cresce anche il tasso di occupazione che in questa fascia di età tocca a marzo il 17,2% con un aumento di 0,4 punti su febbraio e di 0,8 punti su marzo 2016. Gli occupati under 25 sono 1.013.000 (+24.000 su febbraio +42.000 su marzo 2016).

Gli autonomi restano in una fase di difficoltà: secondo i dati Istat, calano gli indipendenti (-70 mila) mentre cresce il numero di lavoratori dipendenti (+63 mila).

Di disoccupazione si è occupata anche Eurostat, secondo la quale nell’area con la moneta unica il tasso di senza lavoro si conferma in marzo al livello più basso degli ultimi 8 anni: è al 9,5%, stabile rispetto a febbraio e in calo rispetto al 10,2% di un anno prima. Quanto all’Ue a 28 paesi, il tasso di disoccupazione è ancora più basso, pari all’8% rispetto all’8,1% del mese precedente: in questo caso, è il livello più basso dal gennaio 2009. L’Italia – chiaramente sopra la media con il suo 11,7% di disoccupati – è fra i paesi in cui la percentuale è cresciuta (nel marzo 2016 era all’11,5%) e si trova al quarto posto dopo Grecia (23,5%), Spagna (18,2%, ma nel marzo 2016 era al 20,3%), e Cipro (12,5%). La disoccupazione resta elevata fra i giovani europei sotto i 25 anni. Il tasso è sceso al 17,2% in Ue (era 19,1% un anno prima) e al 19,4% nell’Eurozona (era 21,3%) ma l’Italia è terza dopo Grecia e Spagna.

Ma il fenomeno della disoccupazione, in Italia, quando è cominciato? Il nostro Paese è sempre stato ad alto tasso di disoccupazione?

È questa una delle domande da cui occorre partire per indagare le radici storiche del fenomeno della mancanza di lavoro nel nostro paese. Con un occhio sia alla storia delle fonti statistiche sia alla storia economica e politica, in quanto segue proverò a ripercorrere gli ultimi 150 anni di storia unitaria osservando l’emergere e il mutare della disoccupazione come problema sociale. L’analisi del fenomeno tenterà di abbracciare al contempo i suoi diversi aspetti: la sua consistenza statistica, le sue origini economiche e le politiche volte a contrastarlo.

Periodizzare – come è noto – equivale a interpretare, e pertanto la scelta di iniziare la narrazione dall’Unità d’Italia corrisponde all’individuazione di un forte legame fra la disoccupazione involontaria e lo sviluppo dell’economia capitalistica.

In Italia le premesse per un pieno sviluppo del sistema capitalistico risalgono al momento stesso dell’unificazione. La costruzione dello Stato unitario diede un primo impulso all’alterazione dei vecchi equilibri nel mondo agrario. Dopo l’Unità d’Italia, che portò alla costruzione di una cornice istituzionale omogenea per tutta la penisola, ispirata al modello statuale francese, venne superato il pluralismo degli ordinamenti giuridici ereditati dal passato. Questi cambiamenti furono decisivi per la formazione di un mercato nazionale unificato. L’affermazione del capitalismo, in un’economia che era ancora prevalentemente agricola, esacerbò la tradizionale condizione di sovrappopolazione dell’Italia, ponendo le basi per l’emergere e l’aggravarsi del problema della disoccupazione involontaria.

Nell’Italia postunitaria la mancanza di lavoro era una possibilità concreta prima ancora che, tra Otto e Novecento, tale fenomeno cominciasse a essere comunemente chiamato «disoccupazione». L’assenza di un impiego, molto spesso, era vissuta come una circostanza naturale, e veniva sopportata dalla gran parte dei lavoratori in situazioni di vita già precarie sotto ogni punto di vista. Altre volte si traduceva in forme rabbiose di protesta, al grido di «pane e lavoro». Laddove possibile, i lavoratori si adattavano ai ricorrenti episodi di disoccupazione trovando fonti alternative di sostentamento, esercitando contemporaneamente diverse attività professionali, o anche spostandosi di luogo in luogo alla ricerca di un’occupazione. Queste strategie di adattamento erano tipiche di una società, come quella dell’Ottocento, in cui il lavoro si svolgeva prevalentemente in forme instabili e non continuative.

Nel contesto ottocentesco la lotta alla disoccupazione non era ancora un tema rilevante per la politica. L’idea del diritto al lavoro era presente solo nella mente dei rivoluzionari più avanzati, sin dal Risorgimento, ed era fermamente avversata dalla cultura borghese e liberale allora dominante. Sulla spinta del nascente movimento operaio, a fine Ottocento nacque la nuova consapevolezza che la mancanza di lavoro è una forma di ingiustizia contro cui occorre lottare. Chi non aveva un lavoro, e non per sua volontà, non tollerò più di essere additato come ozioso o vagabondo. Solo allora, e non prima, si delineò un nuovo quadro politico, in cui prese corpo la nuova categoria di “disoccupazione involontaria”, i cui contorni rimasero però all’inizio molto incerti. Tra Otto e Novecento, nonostante i primi tentativi di istituire un regolare rilevamento statistico del fenomeno dei lavoratori privi di impiego, non riuscirono tuttavia a consolidarsi né una definizione chiara e condivisa della condizione del disoccupato, né istituzioni in grado di garantire un rilevamento del fenomeno sufficientemente omogeneo, continuo e affidabile. Il censimento del 1901 rilevò a livello nazionale quasi 230.000 disoccupati, ma si tratta di una cifra che va presa con molte riserve.

La prima guerra mondiale, prima guerra «totale» e di massa della storia europea, è generalmente riconosciuta come un evento epocale, all’origine di profonde trasformazioni sul piano politico, sociale ed economico. In occasione della Grande guerra si sviluppò un’inedita collaborazione fra settore pubblico e privato dell’economia. La prima guerra mondiale, in Italia ma non solo, fu uno spartiacque anche per quel che riguarda la gestione dei problemi occupazionali e la tutela del lavoro. Il sacrificio imposto a milioni di uomini e donne comportò la ricerca di nuovi strumenti di consenso e protezione sociale. Per questa ragione la stessa guerra che costrinse alla morte milioni di lavoratori, strappati alle loro povere esistenze senza sapere perché, contribuì per altro verso anche allo sviluppo dello Stato sociale europeo, il quale fu profondamente condizionato dall’esperienza bellica. Durante la guerra la cronica disoccupazione italiana fu riassorbita dalla macchina produttiva bellica, ma quando le armi furono deposte emerse l’enorme problema di dare una risposta ai reduci e ai tanti disoccupati lasciati in eredità dalla riconversione dell’apparato produttivo. Al crepuscolo dell’Italia liberale, nel 1919, fu introdotta l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, la quale si rivelò tuttavia un argine molto parziale al problema dei senza lavoro.

La guerra e il successivo «biennio rosso» partorirono il fascismo, il quale risultò funzionale a garantire gli interessi dei ceti dominanti, mettendo la sordina al conflitto sociale. Le condizioni dei lavoratori – a cominciare dalle retribuzioni – subirono infatti un peggioramento, a fronte di un intervento parziale e discontinuo del governo sul terreno dell’espansione dello Stato sociale. Il fascismo dovette anche affrontare la più grave crisi del Novecento, quella scoppiata nel 1929, la quale ebbe pesanti ricadute sul mercato del lavoro italiano. Secondo le cifre ufficiali il picco massimo della disoccupazione si raggiunse nel febbraio del 1933, con un totale di 1.229.387 disoccupati in tutto il Regno, concentrati prevalentemente nel settore industriale e nelle regioni settentrionali.

Quali furono gli interventi del governo fascista per fronteggiare la presenza dei senza lavoro, sempre più numerosa negli anni della crisi? La disciplina dell’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione era già stata modificata nel 1923 con una forte restrizione dei lavoratori interessati. Sul fronte delle politiche economiche, possiamo invece individuare alcune strategie di fondo strettamente collegate fra loro: il contrasto all’urbanesimo e il controllo sulla mobilità interna, la regolamentazione del collocamento, la ruralizzazione e la lotta al bracciantato, gli investimenti in bonifiche e opere pubbliche, e infine la colonizzazione e lo sfruttamento dei territori africani. Nel complesso si rivelarono provvedimenti parziali e spesso puramente propagandistici. Solo il riarmo avvenuto a partire dalla guerra d’Etiopia poté giocare un ruolo espansivo di tipo «keynesiano», non impedendo però il deterioramento delle capacità e delle prestazioni del sistema produttivo italiano.

Con la fine della seconda guerra mondiale sembrò presentarsi la possibilità di una svolta nella storia della disoccupazione in Italia. Le forze antifasciste, specie quelle più legate agli interessi popolari, si posero l’obiettivo di mettere il lavoro al centro della ricostruzione della democrazia. La nascita della Repubblica italiana «fondata sul lavoro», come recita il primo articolo della Costituzione del 1948, tracciò infatti per la prima volta un orizzonte in cui la disoccupazione sarebbe dovuta diventare un fenomeno residuale. La realtà avrebbe smentito questa prospettiva, almeno guardando al lungo periodo. Forse le generazioni che dopo la seconda guerra mondiale salutarono con fiducia l’avvento dell’Italia democratica e repubblicana non avrebbero immaginato che settant’anni più tardi la disoccupazione e la precarietà del lavoro sarebbero stati ancora tra i temi di maggiore attualità.

La storia dell’Italia repubblicana si aprì in un contesto di gravissima disoccupazione. Oggi il fenomeno torna a essere centrale, nonostante sia mutato per quantità e qualità. I senza lavoro di oggi sono tendenzialmente al riparo dalla miseria ancora diffusa nel secondo dopoguerra, per diverse ragioni: rispetto ad allora sono aumentati i cosiddetti «ammortizzatori sociali», sono cresciuti notevolmente sia il livello di benessere sia il reddito delle famiglie. I disoccupati, però, sono perfino aumentati rispetto al dopoguerra. Anche la precarietà del lavoro assume oggi dimensioni crescenti, pur essendo profondamente mutata rispetto al passato.

Il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta furono un periodo in cui i disoccupati si contavano ancora a milioni. Una parte di questi disoccupati, come durante l’età giolittiana, si diressero verso l’estero alla ricerca di fortuna, o anche semplicemente verso le regioni italiane del nord-ovest investite dall’espansione dell’industria. Negli anni del centrismo prevalse una politica economica ispirata all’ortodossia liberale, anche se non mancarono alcune eccezioni, come il varo del Piano Ina-casa voluto da Fanfani, per dare lavoro ai disoccupati e risolvere al contempo l’annoso problema della carenza di alloggi per ampie fasce della popolazione. L’avvicinamento a una situazione di piena occupazione fu un obiettivo raggiunto con fatica solo all’inizio degli anni Sessanta (nel 1963 il tasso di disoccupazione raggiunse il suo valore più basso della storia repubblicana, poco meno del 4%), non soltanto grazie alla congiuntura economica favorevole, ma anche in virtù dell’accettazione del principio «keynesiano» della programmazione degli investimenti, attuato in seguito allo spostamento a sinistra del baricentro politico del Paese. Negli anni del «boom», tuttavia, nonostante alcuni passi in avanti, rimase sostanzialmente irrisolto il tradizionale problema del dualismo della nostra economia, il quale sarebbe tornato a crescere a partire dagli anni Settanta, contribuendo al riemergere prepotente della disoccupazione come problema cruciale del Sud.

Gli anni Settanta videro l’emergere di fenomeni contrastanti: da un lato l’espansione dell’occupazione femminile, dovuta anche al profondo rinnovamento sociale prodotto dai movimenti di protesta di quegli anni, dall’altro la crescita della disoccupazione, in particolare nella sua componente giovanile. La capacità della politica di incidere sulle dinamiche del mercato del lavoro si rivelò sempre più limitata, sia per i fallimenti della programmazione economica, sia per la crisi economica e la destabilizzazione finanziaria globale, sia per i gravi conflitti che allora attraversarono la società e il sistema politico.

Negli anni del craxismo l’Italia sembrò avviata su un sentiero di crescita sostenuta e di espansione del benessere, ma fu proprio a partire dagli anni Ottanta che la disoccupazione cominciò a diventare nuovamente un problema strutturale nell’intero paese, ponendo in forme nuove il riemergere di una «questione sociale». In quegli anni il tasso di disoccupazione complessivo si avvicinò alla soglia del 10%. Rispetto al dramma e al paradosso della disoccupazione di massa la classe politica, ormai influenzata dal nuovo mito del «ritorno al mercato», non sembrò più offrire risposte risolutive. Da allora a oggi gli interventi di politica del lavoro sono stati influenzati dal mantra della deregolamentazione e dell’abbattimento dei diritti, nella convinzione erronea che la flessibilità contrattuale abbia effetti diretti sui livelli di occupazione. Siamo giunti così al contesto attuale, in cui la disoccupazione è tornata a essere un elemento normale, funzionale agli stessi equilibri del sistema economico capitalistico, in uno scenario dominato dalle politiche restrittive ispirate ai criteri di Maastricht. I disoccupati sono oggi intorno ai 3 milioni, facendo riferimento alla definizione più restrittiva possibile, che è quella adottata dalla statistica ufficiale. Possiamo dire senza esagerare che il quadro politico dentro cui ci muoviamo, in Italia e in Europa, è ormai tale da non contemplare più l’idea che si possa sconfiggere radicalmente il male della disoccupazione.

Dati storici alla mano, l’Italia è quindi un Paese senza speranze, poiché il problema della disoccupazione non è mai stato affrontato a muso duro nel passato, cioè quando era ancora possibile arginarlo, e ora che torna prepotente con un bel 34% (rispetto al 4% degli anni ’60 e il 10% degli anni ’80), praticamente possibile arginarlo. Nemmeno con il Jobs Act renziano, che rafforzando i voucher, ci ha dato l’illusione di poter fare qualcosa di concreto. Ma esistono delle soluzioni concrete, o perlomeno, delle possibili soluzioni da attuare per far fronte alla disoccupazione?

Guardiamo all’estero :

La Gran Bretagna ha dimostrato come si possa ridurre la disoccupazione (ora il 5,2% della forza lavoro) puntando su una maggiore flessibilità del mercato del lavoro pur con un welfare state molto più sviluppato di quello americano.

Ma molti europei storcono il naso di fronte al crescente divario salariale britannico. I Paesi Bassi forse offrono un modello più appetibile.

Quello che era un tempo il tasso di disoccupazione più alto dell’Unione Europea è ormai diventato il più basso (neanche il 2%) e senza creare eccessivi divari salariali né smantellare lo stato sociale. Al contrario, agli inizi degli anni 80 i sindacati hanno accettato le richieste di riduzione dei salari.

In cambio, le aziende hanno creato più posti di lavoro e il governo ha ridotto i contributi sociali da versare. Il governo ha anche diminuito i sussidi di disoccupazione, applicato regole più severe.

C’è chi dice che il miracolo olandese sia solo un mito, in quanto un’amplissima percentuale di forza lavoro vive con pensione di invalidità ed è pertanto esclusa dalle statistiche relative alla disoccupazione (che risulterebbero così inattendibili).

Ma non è giusto. E’ pur vero che nel 1990, per quanto il tasso di disoccupazione fosse basso, i Paesi Bassi avevano una percentuale di occupati (lavoratori effettivi rispetto alla popolazione in età lavorativa) pari al 61%, una percentuale al di sotto della media dell’Unione Europea. Oggi però il 74% della popolazione ha un lavoro, percentuale leggermente superiore a quella americana. Certo, molti dei nuovi posti sono part-time, ma questo rispecchia le preferenze di molte lavoratrici e lavoratori che ci guadagnano in flessibilità.

Inoltre, si è avuta una effettiva creazione di nuovi posti di lavoro e non una mera condivisione di posti già esistenti: dal 1990 le ore di lavoro complessive nei Paesi Bassi sono aumentate più rapidamente di quanto sia accaduto negli Stati Uniti.

Ma le ricette vincenti, come sempre arrivano dai Paesi del Nord :

La Svezia e la Danimarca, insegnano che non è necessario ridurre le prestazioni dello stato sociale ai livelli americani per abbassare il tasso di disoccupazione. In entrambi quei paesi la spesa pubblica ammonta tuttora al 50% del prodotto interno lordo. Ma i rispettivi governi hanno reso il mercato del lavoro più flessibile, con politiche attive per aiutare i disoccupati a trovare un posto nel più breve tempo possibile.

Il “modello olandese” non è né perfetto né indolore: richiede severi tagli a salari e sussidi di disoccupazione. A ogni modo, dimostra agli altri governi che non hanno bisogno di conformarsi pedissequamente all’America per ridurre la disoccupazione.

Per creare nuovi posti di lavoro basta copiare i vicini di casa europei.

Ovviamente, la disoccupazione italiana, la terza più alta d’Europa, è un problemone che richiederà tempo, sacrifici e pazienza per essere risolto, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

FONTI : The Economist, Repubblica (Finanza), Ansa.it, Il Fatto Quotidiano.

Alla prossima puntata!

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