I Problemi dell’Italia (Rubrica Breve) – Le differenze tra Nord e Sud

Salve, in questa quarta e penultima puntata della mia rubrica affronterò un problema che si protrae da almeno un secolo, anzi da 156 anni per essere precisi, mi riferisco al problema riguardante le differenze sociali, industriali e “genetiche” (a detta dei leghisti) esistenti tra Nord e Sud.

PUNTATA NUMERO 4 – LE DIFFERENZE TRA NORD E SUD

La questione del divario tra nord e sud, detta “Questione Meridionale”, è un argomento che troviamo anche sui libri di storia, come se quest’argomento appartenesse al passato. Purtroppo non è cosi, la questione meridionale esiste ancora, anche se le differenze, comunque evidenti a livello “di sviluppo”, si sono pian piano attenuate nel corso degli anni, anche grazie alle politiche europee per lo sviluppo del Sud Italia, che ha il PIL più basso d’Europa e grazie alla nascita di alcuni complessi industriali che hanno dato lavoro a gran parte della popolazione.

Nonostante l’apparente buona volontà di alcuni governi che si sono interessati alla vicenda, questo gap tra le due parti del Paese non sembra essersi notevolmente ridotto.

Le differenze esistono ancora, anche a livello sociale oltre a quello industriale, ecco un po’ di dati relativi alle differenze tra Nord e Sud :

  1. 46,4% della popolazione del Sud vive in condizioni di povertà, 4 punti percentuali in più rispetto alla media pre-crisi, e lontanissima rispetto a quella del Nord Italia (17,4%)
  2. Il reddito pro capite del Nord supera di quasi 15.000 punti quello del Sud : 32.889 euro nelle tasche settentrionali contro i 17.984 in quelle meridionali.
  3. La disoccupazione è molto più marcata al Sud rispetto che al Nord : infatti, nonostante questo sia un problema nazionale, la differenza e il peso della perdita del lavoro si son notati più in alcune regioni del Meridione che in quelle del Settentrione. Mi riferisco a Calabria (+12%), Campania (+9%) e Sicilia (+9,2%). Mentre alcune regioni del Meridione si mostrano in controtendenza, facendo registrare un timida crescita dell’occupazione. Sto parlando della Basilicata (+0,6%) e Puglia (+0,9%).
  4. Infine, uno studio della Commissione europea (Anticorp) sulla qualità dei servizi pubblici, l’imparzialità della somministrazione e il livello di corruzione, condotto in 206 regioni d’Europa, vede ben sette regioni del Sud tra le ultime 30 posizioni: la Sardegna (178° posto), la Basilicata (182° posto), la Sicilia (185° posto), la Puglia (188° posto), il Molise (191° posto), la Calabria (193° posto) e la Campania (202° posto).

L’ultimo punto introduce un altro argomento : la corruzione. Secondo un studio condotto nell’anno 2012, il Sud Italia è al primo posto per la corruzione in tutta Europa. Solo 4 regioni italiane si salvano eh, ma al sud la questione sembra essere più marcata. Lo studio è stato condotto dalla famosa agenzia Trasparency International e questi sono i risultati :

“Nel 2012 solo quattro regioni sembrano essersi salvate, che hanno quindi registrato al massimo due casi di corruzione. Per tutte le altre si va da un minimo di 2 ad un massimo di 10, con in cima a questa classifica la Campania, con oltre 10 casi. A seguire la Calabria, Puglia e Sicilia con 8-10 casi e Lombardia e Umbria con 6-8.

Gli elementi presi in esame per gli 87 casi sono: i casi denunciati, le indagini aperte, i processi iniziati o chiusi, e da questi dati raccolti sono risultate pulite solo 4 regioni: Val d’Aosta, Trentino Alto-Adige, Friuli Venezia Giulia e Basilicata. In mezzo ci sono Piemonte, Liguria, Marche e Abruzzo con 2-4 casi, e infine Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Molise e Sardegna con 4-6 casi”. 

I casi di corruzione analizzati da Transparency Italia rientrano in cinque categorie: nomine, farmaceutica, appalti di beni e servizi, sanità privata e negligenza medica.

Nel primo caso lo studio rileva come la politica usi la sanità come serbatoio e spartizione di voti. Qui le merci di scambio sono la nomina a direttore generale, sanitario o primario in cambio di voti e finanziamenti.

La corruzione più diffusa è invece quella che riguarda i farmaci: in questo caso in cambio della scelta di un farmaco da parte di uno studio medico, un ospedale o una Asl, la ricompensa è costituita da regali, macchinari, finanziamenti. La corruzione più costosa è quella degli appalti di beni e servizi, visto che rappresentano il 20-30% dei bilanci sanitari. In questo caso il beneficio viene elargito per avere l’appalto con gare tagliate su misura, trattative negoziali, abuso della contrattazione diretta, o anche in fase di fornitura, dando servizi di qualità e prezzo minore rispetto a quanto promesso nel capitolato d’appalto.

La corruzione nella sanità privata è invece giudicata quella più pericolosa per la salute del cittadino. In questo caso si cerca di intervenire sugli accreditamenti, o modificare il valore delle prestazioni, senza dimenticare che anche qui si annida il rischio di infiltrazioni mafiose, con il riciclaggio di denaro sporco con cui magari vengono acquisite intere cliniche.

Infine la negligenza medica: qui la corruzione è meno rilevante economicamente, ma limita l’accesso alle cure in base alle possibilità economiche del paziente.
In un altro studio condotto dall’OcseTrust in Government, analizzando comparativamente la situazione di 29 Paesi nel mondo, è emerso che i più grandi esperti di normative anticorruzione sono gli stessi corrotti e corruttori, gli unici davvero interessati ad utilizzarle. A tal proposito la soluzione che viene proposta al termine di questo studio è che per combattere efficacemente la corruzione si dovrebbe: combinare normative e controlli sempre più stringenti con una solida educazione all’etica e alla moralità. Questa educazione deve iniziare insegnando l’etica della buona cittadinanza nelle famiglie e nelle scuole. 

Ovviamente quello di cui parlano tutti è il divario economico tra le due parti del Paese.

Un po’ di tempo fa mi capitò di leggere un articolo di una nota testata giornalistica che affrontò il problema della nascita del divario tra Nord e Sud, la nascita delle disparità e l’evoluzione di queste. Il divario economico tra Nord e Sud come noi lo conosciamo nacque solo alla fine dell’Ottocento. Nel 1861 tutto il paese unificato presentava prevalentemente una economia preindustriale (64% di lavoratori in campo agricolo, la restante parte suddivisa tra industria e servizi). Lo studio su cui si basa l’articolo riporta una assenza di differenze significative nello sviluppo industriale, per tutto il primo decennio successivo all’unificazion. Il numero dei lavoratori impiegati nell’industria era sopra la media nazionale in Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Successivamente, agli inizi del ‘900, si formò il famosissimo triangolo industriale Torino – Milano – Genova.

Nel 1891, solo il 19% dei lavoratori era impiegato nell’industria (21% al Nord e 16% al Sud). Dunque, il divario industriale era ancora esiguo su base territoriale. Vi erano regioni più e meno industrializzate in tutte le zone del Paese. Nell’articolo viene specificato che la prima grande ondata di emigrazione coinvolse oltre 5 milioni di cittadini italiani provenienti prevalentemente da Veneto, Venezia Giulia e Piemonte. Dopo il 1900, prevalse il numero di emigranti provenienti dal Sud. La concentrazione di industrie nel Nord del Paese si accentuò nel periodo tra le due Guerre.

Il PIL su base regionale era distribuito in modo diverso da come avremmo potuto immaginare: al Sud solo la Calabria e la Basilicata presentavano un PIL pro capite inferiore alla media nazionale, nel 1891. La situazione di polarizzazione geografica, nel corso degli anni, è notevolmente peggiorata. C’è anche da dire che fu molto più favorevole industrializzare il Nord rispetto al Sud, poiché durante il famoso periodo storico noto a tutti come “dispotismo illuminato”, i sovrani dei vari stati nazionali, compresi alcuni italiani, cercarono di potenziare la presenza dello Stato in alcuni settori, tra cui anche quello industriale, e di rafforzare la struttura amministrativa. Ciò purtroppo non accadde al Sud, dove questo tentativo fu visto da baroni, che tenevano sotto scacco il governo borbonico, come un tentativo di intromissione dello Stato nei loro affari. Molti individuano questo evento come l’inizio dello sviluppo del divario tra Nord e Sud.

Poi esiste un’altra versione dei fatti, cara ai neoborbonici. Mi riferisco al riuscito tentativo di aggressione della monarchia dei Savoia al Sud Italia, allo Stato Borbonico. Alcuni studi riportano l’economia dell’ex stato borbonico come una tra le più fiorenti d’Europa, con riserve auree da far invidia alla Federal Reserve, e vedono lo Stato Savoiardo come l’usurpatore per eccellenza. Quini, i Savoia, con la collaborazione dei 1000 (e di 30.000 mercenari inglesi), aggredirono lo Stato del Sud (da non confondere con il Regno del Sud della II Guerra Mondiale) per appropriarsi di tutte le ricchezze che esso aveva e poi di accreditare le spese di guerra ai cittadini “colonizzati”.

Ovviamente la verità sta nel mezzo. Gli studi più accreditati riportano lo Stato borbonico sull’orlo del fallimento, ma dignitosamente in piedi. E i Savoia, con il beneplacito delle protettrici dell’ordine europeo (Francia e Inghilterra), hanno perpetrato un’invasione dello Stato con la collaborazione e la corruzione di alcuni generali e baroni che non hanno opposto resistenza ai garibaldini. Documentato fu anche l’ondata di violenza, nota a tutti come “brigantaggio”, che coinvolse cittadini delusi dal trattamento savoiardo (estensione dello Statuto Albertino dopo promesse di diritti e libertà, estensione della Lira e di un modello economico sconosciuto e soprattutto tasse insostenibili per dei cittadini ridotti alla fame a causa della guerra) e che portò alla morte di almeno 100.000 (stime ancora non accertate) persone tra briganti e civili (e 50.000 briganti arrestati e condannati) e alla distruzione di 60 centri abitati, anche per rappresaglia. Furono impiegati 200.000 soldati piemontesi. Le tasse e i soldi “derubati” allo Stato borbonico, secondo delle fonti, furono usati per finanziare l’industrializzazione delle fabbriche del nord, funzionarono come investimenti statali per la costruzione di opere pubbliche, mentre il Sud piangeva la fame.

Con la fine del fenomeno del brigantaggio, un altro prese il suo posto, quello dell’emigrazione, soprattutto per motivi occupazionali. Infatti era ormai molto difficile riuscire a garantirsi un posto di lavoro e dell’entrate sufficienti a mantenere la propria famiglia. Tutto questo portò i lavoratori a spostarsi al nord in cerca di fortuna. Fino al boom economico che permise di industrializzare “mediamente” il Sud Italia e di garantire posti di lavoro anche al Sud (parte dei soldi provenivano dal famoso piano Marshall).

Sostanzialmente la storia delle differenze tra Nord e Sud si riassumono in queste parole, in questa “breve storia”. Con la speranza che la situazione possa cambiare, dopo i timidi segnali di ripresa registrati da alcune regioni, vi rinnovo l’appuntamento alla prossima ed ultima puntata di questa breve rubrica.

ildonatello

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