La Nuova Via della Seta e la geopolitica cinese – Voci fuori dal coro

Mentre in Italia si discute sulla realizzazione o meno di un corridoio (un buco) di appena 50 km, in Cina ci si appresta a finanziare un maxi-progetto dal valore di diversi miliardi di dollari, noto come “Nuova Via della Seta”, una ferrovia lunga più di 8000 km avente il fine di connettere tre continenti, a cui si aggiunge una via marittima che dall’Oceano Indiano arriva direttamente al Mar Adriatico. Per dare un’idea della dimensione del progetto, i Paesi aderenti, fino ad ora, sono circa 152 con l’Italia primo rappresentate del G7.

Il nome ufficiale dell’iniziativa è “Belt Road”, e nasce nel settembre del 2013 da un discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica cinese, Xi Jinping (quello che Di Maio ha chiamato “Ping”) in Kazakistan. Un anno e mezzo dopo, nell’aprile del 2015 il progetto assunse dei connotati più precisi con sei corridoi economici sui quali svilupparsi: all’epoca l’iniziativa venne valutata 900 miliardi di dollari.

Il primo forum sull’iniziativa venne organizzato dal Presidente cinese e dal Premier Italiano, Paolo Gentiloni (siamo nel 2017). In quell’occasione, la Cina, come opera dimostrativa, aggiunse altri 113 miliardi di dollari di finanziamenti. Il secondo forum dell’opera, invece, è previsto ad Aprile a Pechino. L’interesse italiano riguarda soprattutto il versante marittimo dell’iniziativa, poiché un cospicuo scambio di merci rivitalizzerebbe i porti del nord Adriatico, ancora troppo distanti, per volume di merci trattate, da quelli del Northern Range (i porti del Nord Europa).

L’interesse italiano per questa mastodontica opera infrastrutturale, dunque, non è venuto fuori dal nulla. Già Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, con una serie di incontri bilaterali ufficiosi discussero a lungo sulle modalità d’ingresso della Cina nel mercato europeo, con l’Italia a fare da tramite. Anche questo governo ha avuto modo di discutere sul merito. Luigi Di Maio, in qualità di Ministro del Lavoro e dello Sviluppo, ha fatto visita al Presidente cinese un paio di volte, in occasioni davvero importanti. Ad esempio, a Shangai, per l’inaugurazione della prima China International Import Expo, il capo politico del Movimento Cinque Stelle ha affermato l’importanza di una futura cooperazione delle aziende italiane e cinesi.

L’iniziativa può già contare su alcuni progetti che stanno contribuendo a ridisegnare lo scacchiere globale. Il più noto è il corridoio economico Cina-Pakistan, disegnato in funzione anti-indiana e dal valore di 62 miliardi di dollari e che vede nel porto di Gwadar il fondamentale e ricercato sbocco cinese all’Oceano Indiano.

Un altro punto focale dell’iniziativa riguarda il completamento dei lavori della condotta petrolifera che unisce la Cina e Myanmar, definita come la quarta via energetica cinese, dopo quella Russa, Asiatica e di Malacca. Ovviamente, anche in questo caso, le intenzioni cinesi ruotano tutte attorno al primario interesse dell’indipendenza energetica in ottica anti-indiana e statunitense che continuamente minacciano gli approvvigionamenti cinesi.

La via marittima comprende anche i porti africani e in particolare quello di Gibuti, dove addirittura il governo di Xi Jinping ha aperto la sua prima base navale fuori dai confini. Il Mar Rosso, in particolare il crocevia di Bab el Mandeb, è un punto geopoliticamente focale per i trasporti marittimi mondiali, in particolare per il mercato petrolifero. Il controllo cinese della zona è un segnale importante e non da sottovalutare. Proseguendo su questa scia, anche la ferrovia Addis Abeba-Gibuti risponde alla volontà cinese di controllare il flusso di merci dell’Africa Orientale, tenendo sotto scacco i governi locali secondo una precisa strategia politica ed economica legata al prestito “a strozzo” di ingenti capitali di sviluppo. Senza dimenticarsi del land grabbing, cioè la vendita di terreno “inutilizzato” perpetrata da alcuni stati poveri a colossi demografici (o economici) senza il minimo ritegno per la popolazione autoctona che utilizzava quegli ettari di terreno per il proprio approvvigionamento.  Sebbene questo discusso fenomeno sia presente da secoli nella storia umana, tra il 2007-2008 ha subito una severa accelerazione, sicuramente dovuta alla crisi dei prezzi agricoli che ha portato alcuni governi a finanziare l’acquisto di terreni coltivabili in previsione di una crisi alimentare.

Il risultato più significativo dell’iniziativa cinese, non è però quello della “penetrazione africana”, anzi, questa è solo la punta dell’iceberg. Il colosso cinese può vantare una consistente quota del porto greco del Pireo, grazie al gigante delle spedizioni marittime cinesi, Cosco, e la prima tratta ferroviaria commerciale Cina-Gran Bretagna. Quest’ultima, dalla durata di 18 giorni, attraversa tutto il continente asiatico per giungere a Londra grazie al tunnel della Manica. Senza contare che nel 2015 la Cina ha inaugurato la tratta Pechino-Madrid.

Nel resto d’Europa, invece, sta prendendo forma il progetto geopolitico cinese che vede al centro la strada ferrata. La città di Duisburg, ad esempio, è spesso considerata il più importante snodo ferroviario europeo per i treni merci in partenza dalla metropoli di Chongqing, nella Cina sud-occidentale. Una linea ferroviaria attiva da diverso tempo che evidentemente non basta più. Il Governo di Pechino vuole strafare.

Tra i principali finanziatori dell’iniziativa c’è la China Development Bank, fondata nel 1994 e diretta dal Consiglio di Stato, dal governo cinese ed ha come principale azionista il Ministero delle Finanze. Questo colosso finanziario si occupa di fornire ingenti capitali, a medio e lungo termine, per le strategie di sviluppo economico e sociale della Cina.

Ma non è finita qui. Il progetto “Belt and Road” (un altro nome per La Nuova Via della Seta) può contare anche su un fondo ad hoc, il Silk Road Fund, che in Italia detiene il 5% di Autostrade. Nato nel 2014, il fondo è supportato dai più grandi nomi della finanza cinese:  la State Administration of Foreign Exchange, il fondo sovrano (China Investment Corporation) e due delle maggiori banche cinesi, Export-Import Bank of China e China Development Bank.

Infine, c’è anche un fondo d’investimento infrastrutturale che si occupa di supportare economicamente i Paesi aderenti all’iniziativa. Tra i partecipanti, su 93 Paesi, c’è anche l’Italia (dal 2015).

Detto questo, credo sia giunto il momento di delineare il ruolo della Cina nel mercato mondiale e soprattutto le sue intenzioni dal punto di vista politico ed economico.

I massimi esperti di geopolitica a livello locale e internazionale hanno sollevato molti dubbi sulle reali intenzioni della Cina e, quindi, sulla bontà della Nuova Via della Seta. A sostegno delle loro ipotesi c’è la volontà, nemmeno tanto nascosta, cinese di mettere le mani sul fiorente mercato europeo e soprattutto c’è la ferrea intenzione di superare i problemi derivanti dal surplus commerciale cercando di immettere prodotti cinesi nel mercato continentale. “E’ la globalizzazione”, risponderebbero in molti. Però, un problema di fondo che va al di là delle congetture politiche, c’è: l’Occidente, da sempre modellato sull’american way of life, potrebbe subire un doveroso capitombolo provocato da Pechino. Il mercato cinese, e quello asiatico ad esso collegato, potrebbe sconvolgere gli equilibri europei in favore di una “cinesizzazione” dei commerci. Le piccole nazioni del continente nulla potranno di fronte al grande colosso asiatico.

Ma non è solo una questione di danaro, anzi, questo non è nemmeno il fine principale di Pechino. E’ tutta una questione geopolitica. Gli americani hanno da tempo vertiginosamente diminuito l’influenza sul continente Europeo a causa delle difficoltà interne, sia economiche che politiche, sopraggiunte dopo l’11 Settembre e dopo lo scoppio della grande depressione mondiale del 2007. I cinesi, invece, da almeno 15 anni, stanno conoscendo un notevole sviluppo economico grazie alle politiche messe in campo dai governi e soprattutto da quello di Xi Jinping che hanno permesso alla Cina il totale predominio nel mercato asiatico, sia a livello economico che politico.

Un esempio di quello che la Cina è riuscita a mettere in piedi viene dalla “strategia del filo di perle” avente il fine preciso di isolare il nemico numero uno delle mire cinesi in Asia: l’India. Dalla costruzione di una flotta militarmente superiore, agli accordi commerciali e infrastrutturali con gli altri Stati, la Cina ha messo in gabbia un colosso emergente come l’India nel giro di pochi anni e sta lentamente rosicchiando anche il predominio statunitense nella zona. Infatti, oltre ad aver raddoppiato la presenza di navi militari all’interno dell’Oceano Indiano, la Cina, Paese fortemente dipendente dalle importazioni marittime, ha cercato di risolvere il problema costruendo oleodotti su terra che attraversano i Paesi a confine con l’India, togliendo a quest’ultima l’unico modo di contrastare il predominio cinese sulla zona. Inoltre, la Cina ha messo in piedi l’ennesimo progetto infrastrutturale nello Stretto di Malacca, cercando di bypassarlo poiché soggetto a pirateria, scavando un canale di diversi km che ridurrebbe anche la distanza percorsa dalle navi cinesi per raggiungere i porti del Mar Giallo meridionale.

Costruzione di nuovi porti, investimenti in quelli di altri Paesi, presenza fissa nell’Oceano Indiano e opere infrastrutturali dovunque e per chiunque. Le armi della Cina sono infinite e, apparentemente, nemmeno la paura dell’americano riesce a fermarla. Le minacce di Donald Trump, seguite da alcuni interventi che hanno fortemente limitato il mercato cinese (caso Huawei ad esempio) non hanno impedito al dragone di continuare la sua politica di investimento in più parti del mondo. Ad esempio in Africa, dove, come ho accennato, la presenza cinese si fa sempre più consistente.

Oltre alla ferrovia Addis Abeba-Gibuti, un altro esempio è quello del “treno della libertà” che collega lo Zambia alla Tanzania, costruito con capitali cinesi che si son sostituiti a quelli del FMI. Un gesto, simbolo della sfiducia africana nei confronti delle banche occidentali, troppo distanti dalle esigenze dei Paesi in cerca di sviluppo (l’FMI aveva respinto il progetto della Tanzan perché poco remunerativo). La Cina, invece, seguendo la sua strategia “win-win”, riassunta nella frase “io ti presto il capitale e tu mi dai l’accesso esclusivo alle tue risorse”, è riuscita efficacemente a penetrare nel mercato africano risucchiando quote di mercato prima appartenenti agli occidentali.

In poche parole, senza tirarla troppo per le lunghe, il mondo sta passando da una visione americano-centrica ad una sino-centrica. I mercati guardano con favore l’evoluzione del colosso cinese a discapito del quasi sempre presente mercato statunitense, alle prese con problemi interni dovuti alla stagnante situazione economica dell’intero occidente. L’Europa si trova in mezzo. Questa è la sua importanza strategica. La Cina, dopo aver sbancato, letteralmente, il botteghino orientale ed africano, sta puntando verso un mercato più remunerativo e l’anello debole, politicamente parlando, è proprio l’Italia, alle prese con un governo fuori dai tradizionali canoni prudenti degli altri Paesi dell’UE, tradizionalmente schierati dalla parte di Washington.

Il problema, di fondo, starebbe nel coniugare il surplus produttivo cinese, da sempre Paese più esportatore che importatore (tralasciando il settore energetico che vede la Cina primo importatore mondiale di petrolio), con i paletti della concorrenza europei ed italiani. Una drastica apertura al mercato cinese, porterebbe ad un’invasione commerciale senza precedenti e in questo caso il nostro Paese pagherebbe il prezzo più salato, essendo l’Italia un Paese manifatturiero (il primo europeo). Ecco perché un’apertura senza una utilissima commissione costi-benefici, sarebbe scellerata.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno intimato ai principali Paesi europei (Germania, Francia e Spagna in primis) a non prendere accordi con il nemico cinese. Gli americani vedono in questa Nuova Via della Seta l’ennesimo tiro mancino politico-economico dei cinesi agli interessi statunitensi nel mondo. Ecco perché criticano a più riprese l’affrancamento italiano all’iniziativa di Pechino.

L’Italia, invece, vede nell’affrancamento a Pechino una possibilità di aumentare l’export. La Cina è un buon partner commerciale (3% di export) e la possibilità di rivolgersi ad un mercato emergente così remunerativo stuzzica la classe imprenditoriale italiana. Oltre al lato economico, però, c’è anche quello politico che consiste nel forzato allineamento italiano in politica estera con i Paesi dell’Europa orientale (tutti firmatari del piano MOU – il memorandum del progetto, che non ha valore internazionale, è più una promessa d’impegno), in barba ai tradizionali legami storici con i Paesi dell’Europa continentale e con gli USA.

Ecco perché occorre fare attenzione. Una brusca virata verso questi Paesi, aventi un sistema economico e politico lontani anni luce da quello tradizionale italiano, potrebbe essere una scelta troppo azzardata, senza contare che le differenze culturali, sociali ed economiche tra Italia e Cina ci sono e sono anche tante.

Anche il Governo è diviso sul da farsi. Se il Movimento Cinque Stelle è spinto sulle ali dell’entusiasmo, poiché nelle intenzioni questo sarebbe un accordo storico, il Quirinale, La Lega e la Farnesina invitano alla calma. Oltre alle conseguenze politiche derivanti dalla firma, anche quelle economiche sarebbero “in forse”. Il MOU, un’intesa preliminare sponsorizzata dalla prudenza di Mattarella, sottolinea come l’accordo deve necessariamente portare al soddisfacimento degli interessi italiani in Oriente, alla costruzione di infrastrutture aventi il preciso scopo di recare beneficio al mercato cinese e a quello italiano. Si parla anche di sviluppo sostenibile che, francamente, accostato all’inquinamento cinese dovuto all’abuso di carbone e alla politica edile cinese, fa un pò ridere. Il contributo di Mattarella verte sui principi europei, poiché qualsiasi forma d’accordo definitivo dovrà passare al vaglio dell’UE.

L’intervento della più alta carica dello Stato è utile onde evitare figuracce internazionali come quella del gasdotto TAP (che non si può chiudere se non con penali miliardarie) e del megaradar Muos, in Sicilia. Quest’ultimo, di proprietà del Dipartimento della Difesa americano, durante la campagna elettorale per il 4 Marzo, fu al centro di numerose polemiche relative alla sua chiusura portate avanti dal Movimento Cinque Stelle locale. Una sua chiusura metterebbe a rischio la sicurezza dell’intero Mediterraneo.

L’obiettivo italiano è quello già citato: garantire una via maestra ai prodotti italiani, verso un mercato a forte crescita. Praticamente si vorrebbe valorizzare il made in Italy.

Il Presidente cinese, Xi Jinping, è atteso a Roma per la firma del MOU il 22/23 Marzo e a questo proposito Washington ha già lanciato una campagna per mettere in guardia l’alleato italiano. In un comunicato della Casa Bianca vengono espressi tutti i dubbi relativi al progetto cinese e le sue tragiche conseguenze sul mercato italiano.

“La Nuova Via della Seta è un progetto della Cina, per la Cina. Siamo scettici che l’adesione del governo Conte possa portare benefici al popolo italiano. L’iniziativa potrebbe finire per danneggiare la reputazione globale di un Paese importante come l’Italia”.

A far scattare un piccolo campanello d’allarme, però, è la mancata adesione all’iniziativa di “economie fagocitanti” come la Germania, la Francia (che si muove sempre con una certa ambiguità, quindi è probabile aspettarsi repentini cambiamenti umorali) e il Regno Unito che, fuori dall’Europa, avrebbe potuto cogliere la palla al balzo.

Il perché è presto detto e verte tutto su una questione di “garanzie”. Al di là dell’influenza diplomatica statunitense, quando si parla di affari non ci sono né amici né nemici. I Paesi dell’UE sono molto scettici perché le modalità messe in campo dalla Cina darebbero pochissimo spazio di manovra alle aziende europee. Secondo la Commissione Europea l’iniziativa sarebbe soltanto un pretestuoso e prepotente tentativo di infiltrazione delle merci cinesi, vendute al ribasso, all’interno di un mercato fruttuoso come quello europeo. Anche la Camera di Commercio europea in Cina la pensa alla stessa maniera e invitano il governo di Pechino a non favorire una competizione al ribasso. Cosa che finora la Cina non ha mai fatto.

A due mesi dalle Europee, l’Italia e il resto del continente sono ai ferri corti anche sul lato commerciale. Il nostro Paese dando supporto all’atto di adesione al progetto infrastrutturale si porrebbe in contrasto sia con la Casa Bianca, un ossimoro se teniamo in considerazione la recentissima visita di Giancarlo Giorgetti, sia con i partner europei. E questa non è l’unica contraddizione interna al governo.

La prima contraddizione degna di nota riguarda il TAV. La componente grillina, a capo della decisione sulla Nuova Via della Seta, appare pronta alle barricate su 50 km di tunnel ma si mostra pronta a firmare un memorandum d’intesa con la Cina su un programma infrastrutturale di 8000 km e che contempla oltre 80 nazioni fra Eurasia, Medio Oriente e Africa, senza alcun coinvolgimento parlamentare o confronto in sede UE-Nato. Ma la risposta che si potrebbe dare su questo punto verterebbe su più su una scelta elettorale adottata dai pentastellati che su altre congetture.

La seconda, invece, è più complicata. L’apertura di un debito con Pechino, porterebbe l’Italia tra le braccia di coloro che hanno colonizzato l’Africa a suon di prestiti. Ovviamente, tutte le rassicurazioni sulla stabilità economica nonostante il deficit contratto con l’Unione Europea andranno a farsi benedire. Una tale presa di posizione dell’Italia nei confronti della Cina, potrebbe essere riassunta nella speranza che i cinesi acquistino Btp nostrani, dopo la fallimentare visita del Ministro dell’Economia Tria a Pechino dell’estate scorsa. Inserire all’interno del memorandum, un punto sui Btp potrebbe essere una delle chiavi dell’interesse italiano.

La domanda che ci si pone è questa: “A quale prezzo l’Italia è disposta ad entrare in affari con un’economia ambigua e pericolosa come la Cina?”. Le opportunità non mancano, certo, ma i dubbi sorgono soventi, soprattutto dopo la decisione di alcuni Paesi fortemente indebitati come Sierra Leone, Malaysia, Myanmar e Bangladesh, di voltare le spalle al progetto cinese. Anche loro hanno eseguito “un’analisi costi benefici”, e hanno deciso di ritirarsi. Invece l’Italia cosa fa? Senza una discussione parlamentare, senza interpellare i propri alleati storici, vuole aderire ad un progetto ben più complicato e costoso di quel buco nelle Alpi. 

Secondo le intenzioni cinesi, il nostro Paese avrebbe un ruolo fondamentale nel progetto grazie soprattutto ai porti di Triste, Venezia e Genova. Una sorta di cerniera marittima tra l’Asia e l’Europa. Il problema è la bontà degli investimenti cinesi nei nostri porti, poiché questi rischierebbero di diventare degli zerbini in mano alle necessità produttive dei cinesi, come Gioia Tauro con la Maersk.

Anche in questo caso, l’invito al governo è quello di ragionare con buonsenso. Questa volta non si tratta di scelte elettorali dallo scarso valore strumentale, ma di investimenti importanti e che condizionerebbero il futuro dell’intero Paese e lo legherebbero all’economia più potente e ambigua del mondo.

Pechino gioca molto sul presente e poco sul futuro, soprattutto a livello diplomatico.

Un esempio a supporto della mia ultima affermazione, poetica per certi versi, è quello che vede al centro le peripezie di Pechino e Nuova Delhi. Nonostante la Cina tenga sotto scacco l’intero subcontinente indiano (come riportato nei paragrafi precedenti), ultimamente i due Paesi si son resi protagonisti di un riavvicinamento sulla base di alcuni accordi commerciali, bypassando il dollaro (valuta internazionalmente riconosciuta per gli scambi) e aprendo una crisi con il Pakistan (il suo primo partner commerciale è la Cina ed è il Paese da cui dovrebbe partire la Nuova Via della Seta marittima), da sempre nemico dell’India e sostenuto economicamente in questo conflitto proprio dalla Cina! La politica estera cinese, come si può ben comprendere, segue soltanto il profitto, con il chiaro intento di sopraffare i propri rivali sia sul versante economico che su quello politico.

Prima di prendere qualsiasi decisione, è bene tenere a mente queste considerazioni. Non sarebbe una scelta saggia sedersi sprovvedutamente al tavolo delle trattative senza sapere chi si ha di fronte.

ildonatello

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