La crisi nera di Di Maio e del M5S: dalle Stelle alle stalle

Le elezioni umbre hanno certificato, se ancora fosse necessario, il declino di uno dei protagonisti politici più importanti degli ultimi anni: Il Movimento Cinque Stelle. La parabola discendente di questo partito, cominciata con il contratto di governo che lo ha legato indissolubilmente alla Lega di Matteo Salvini per 14 mesi, ha raggiunto l’apice proprio una decina di giorni fa dove, in occasione dell’ennesima votazione regionale, i grillini hanno toccato il fondo. Dal 27% delle Politiche del 2018 al 14% delle Europee, passando per il 7% del 27 ottobre. L’Umbria potrebbe essere considerata la cartina al tornasole dell’esperienza, soprattutto di governo, del M5S.

La parabola discendente del M5S segue anche un’altra direttrice, quella del suo leader e frontman, Luigi Di Maio, il quale dopo le batoste elettorali a livello regionale ed Europeo, non ha pensato minimamente di fare mea culpa, autocritica e ha rimandato il tutto agli Stati Generali 2020 (una sorta di assemblea di matrice robespierrista). Il declino della sua figura, incapace di tenere assieme il partito, gli elettori e, ora, la classe dirigente è certificato dalla sua innata incapacità di prendere delle scelte e soprattutto di comunicare. Comunque, c’è da dire che durante l’era giallo-verde, il M5S ha ottenuto dei risultati, discutibili o meno ma sempre dei risultati. Dal reddito di cittadinanza al taglio dei parlamentari, passando per la riforma anti-corruzione. Il M5S “ha dato” ma non “ha ricevuto” abbastanza.

A chi la colpa di questo declino? Al leader o al partito?

“Cinque Stelle cadenti”

Nato con intenti anti-sistema e a tratti rivoluzionari, il M5S, nel corso di questi dieci anni, si è istituzionalizzato, dandosi un’organizzazione gerarchica e soprattutto cercando di radicarsi all’interno del territorio nazionale. Da movimento popolare e sovversivo a partito. La parabola dei grillini potrebbe riassumersi in quest’ultima frase. Il carattere distinguente del M5S era proprio questo: “non siamo come gli altri partiti, noi non siamo proprio un partito!”. Nel giro di dieci anni i pentastellati si son trasformati in quello che hanno sempre ripudiato.

Ciò, però, può essere giustificato dalla necessità di dotarsi di una struttura partitica una volta entrati in Parlamento. I grillini hanno compreso che per governare è necessario passare attraverso le istituzioni e soprattutto attraverso la Costituzione. Inoltre, certe strutture intergovernative non hanno colore, non possono essere assimilabili a una generica etichetta, la casta.

Il M5S ha avuto il merito di riportare al voto i delusi. Il suo exploit, nel 2013, quando si attestò attorno al 25%, concise con l’apparente fine del bipolarismo destra-sinistra e la nascita di una nuova era politica. Nessuno poteva immaginare che le stelle si spegnessero così presto. Questo è stato possibile grazie sia alle scelte errate operate dal partito in chiave strategica e comunicativa, soprattutto alla “prova di governo”, sia in chiave dirigenziale. Infatti non esiste un leader in grado di rimpiazzare Di Maio e il motivo per cui l’esecutore materiale degli ultimi fallimenti grillini è ancora lì, è proprio perché non esiste alternativa.

Raccogliere un bacino di voti consistente e sperperarlo in meno di un anno non sarebbe giustificabile per nessun partito, figuriamoci per un leader. Ma addossare tutte le colpe a Di Maio (o ai giornalisti, ovviamente) sarebbe altamente riduttivo.

Con scelte strategiche si intende innanzitutto il contratto di governo. Secondo alcuni politologi la scelta di scendere a patti con la Lega di Matteo Salvini ha rappresentato il primo passo verso la discesa. Fino a qualche settimana prima, in tv, il leghista e il grillino (Salvini e Di Maio) si erano scontrati duramente arrivando a definire ogni probabile tentativo di accordo come “utopico, impossibile”. Qualche settimana dopo erano seduti a Palazzo Chigi a definire i punti contrattuali. Vista la situazione di stallo altrimenti creata, con il “niet” del PD di Renzi, la soluzione strategicamente migliore per un partito di urlatori come il M5S, sarebbe stata quella di rifiutare un governo di alleanza a tutti costi e invocare il ritorno alle urne. A quel tempo, la perseveranza avrebbe premiato. La prova tangibile di quanto detto sta nei primi sondaggi dopo il contratto: Lega al 22%, M5S al 31,5 (-1,1%).

Un altro errore, davvero imperdonabile, è stato quello di lasciare a Salvini le chiavi del governo. In poche parole l’ex Ministro dell’Interno ha fatto suo lo stendardo intergovernativo e ha pubblicizzato fortemente il suo scarno operato, facendo apparire i grillini come la classica ruota di scorta. E, a questo proposito, la preponderanza personalistica, cioè la differenza di caratura tra i due leader, ha inciso molto. L’errore del partito, invece, è stato quello di non pubblicizzare efficacemente i propri provvedimenti bandiera. Ed è davvero strano che un partito che ha puntato tutto sulla comunicazione digitale abbia commesso un errore del genere. Alcune riforme importanti, come quella sulla corruzione, sono passate inosservate a fronte, ad esempio, di una legge sulla legittima difesa pubblicizzata a più non posso e dall’efficacia quasi sotto-zero.

Ma, ed è forse questo il punto più basso, è proprio il messaggio grillino ad aver perso la sua forma. Sembrerebbe quasi che le battaglie condotte dal M5S non interessino più il suo elettorato. Il reddito di cittadinanza, il quale non ha sortito l’effetto voluto, il taglio dei parlamentari, quello dei vitalizi, sono stati per tanto tempo il cavallo di battaglia di un movimento nato dall’insofferenza dei cittadini nei confronti di una politica menefreghista e lontana dalle esigenze della base elettorale. A lungo andare la prova di governo ha trasformato il M5S in partito normalissimo, da Prima Repubblica (altro che Terza), con correnti e defezioni e soprattutto con un elettorato liquido, a tratti scivoloso che non ha perso tempo e si è rifugiato in altre formazioni, considerate più solide rispetto ai grillini.

Il partito ha perso il suo fascino, quello che per ben due volte ha premiato l’ambizione del M5S e, soprattutto, il suo operato all’opposizione. Guardare il Paese da due prospettive diverse, maggioranza e opposizione, è diverso e l’esperienza del Movimento ha reso bene l’idea. “Governare non è facile e fa perdere voti” ed è proprio in questo frangente che si può comprendere quanto un elettorato solido, fedele e fiducioso sia importante. Si deve avere l’onesta intellettuale di ammettere che la base elettorale non ha aiutato i grillini nei momenti più difficili. Il 20% ha preferito rivolgersi alla Lega, il resto ha optato per astenersi, come se fosse rimasto deluso.

L’assenza di una storia e di una ideologia a cui rifarsi, essendo un partito post-ideologico, ha forse inciso profondamente su questo tracollo. Il M5S ha deciso di accogliere i delusi, di destra e di sinistra, i quali in un momento di difficoltà hanno rinunciato a seguire il proprio partito e, al contempo, lo stesso non ha trovato più nessuno a cui rivolgersi.

I provvedimenti ci sono stati, evidentemente non sono stati apprezzati. Sul banco degli imputati c’è anche il reddito di cittadinanza, il quale, secondo un recente studio di Svimez, ha avuto un impatto nullo sul mondo del lavoro italiano, soprattutto al Sud dove continua l’emergenza demografica.

Il M5S e un leader che non c’è

Anche la classe dirigente del partito ha le sue responsabilità. Di Maio, in primis, non è stato all’altezza del ruolo ricoperto, sia come Ministro che come Capo politico. Non c’è miglior metro di valutazione dell’operato di un leader che l’elezione. Nel giro di un anno e mezzo i grillini hanno perso poco più di dieci milioni di voti a beneficio di Salvini e soprattutto del più grande partito italiano, quello dell’astensione.

Ciò che spaventa, però, è la totale mancanza di autocritica di Luigi Di Maio, il quale ha dapprima accusato l’astensione (alle Europee), poi l’accordo con il Partito Democratico a livello regionale. Il tracollo elettorale non è cosa che gli riguarda.

Sicuramente la responsabilità principale dell’attuale ministro è quella di non aver avuto mai il controllo del governo, dall’alto del suo 32%, e lasciando fare il buono e il cattivo tempo a Matteo Salvini, libro di muoversi a piacimento e addirittura libero di fare opposizione interna, il TAV ne è un esempio. Questo forcing ha fruttato alla Lega il raddoppio dei consensi ed è costato a Di Maio il baratro.

Questo conflitto interno, tra Salvini e Di Maio, ha sicuramente premiato il primo. In poche parole si è consumato una sorta di delitto perfetto. Il primo, leader carismatico e abile comunicatore, ha preferito scegliersi un Ministero, quello dell’Interno, in cui la propaganda riveste un ruolo davvero importante. Un costume che gli calza a pennello. Il secondo, invece, ha optato per un super ministero dove ogni provvedimento viene messo a vaglio dei sindacati, dei lavoratori e soprattutto richiede tempo e sudore. Matteo Salvini ha gestito la situazione senza il peso dell’istituzione, Luigi Di Maio ha subito, invece, il contrappasso del potere.

In questa situazione si è consumato il misfatto. Mentre Salvini annunciava i suoi provvedimenti come la chiave di Volta per risolvere ogni crisi, Di Maio e l’interno M5S ha risposto a denti stretti, circondandosi al contempo di persone incompetenti e incapaci di far eco a un partito che l’intera esperienza di governo ha, infine, bocciato. I malumori e le divisioni interne, hanno fatto il resto.

Anche le giravolte politiche hanno inciso sulla sua leadership. Per paura di perdere l’elettorato, con uno sguardo ai sondaggi, il capo politico del M5S ha più volte cambiato opinione. Dall’ILVA, di cui oggi si parla tanto, al “partito di Bibbiano”. Una giravolta guidata più dalla paura che da una qualsivoglia strategia. Il fattore emotivo ha inciso tanto sulle scelte del giovane grillino, soprattutto a fronte di un’alleanza mai digerita dalla base (quella con la Lega). Il ministro ha sbagliato su tutti i fronti: si è lasciato sopraffare dal cinismo di Salvini, non riuscendo a partorire un efficace strategia comunicativa, si è circondato di vipere e di incapaci che quotidianamente tramano contro di lui e, infine, non è riuscito a tenere compatto il suo partito.

Luigi Di Maio, un bravo ragazzo senza dubbio ma un pessimo politico, però, non ha rivali sulla piazza. E’ lui l’unico nome spendibile per i grillini. Alessandro Di Battista, tanto invocato, non è un uomo delle istituzioni, è un paroliere come Salvini (ma non è lui) e ha idee politiche ancora più confuse del ragazzo di Pomigliano. Per, ora nonostante in molti chiedano le sue dimissioni, il ministro degli Esteri resterà al suo posto.

La speranza è quella che l’intero partito e la sua classe dirigente si rendano conto del declino del loro messaggio, dovuto a errori strategici e comunicativi che in questo periodo pagano più di quanto si possa immaginare. Urge un profondo esame di coscienza, di autocritica e soprattutto di una soluzione, la quale però, non deve essere ricercata nello scontro intergovernativo, come sta accadendo in questi giorni, ma in una responsabilizzazione collettiva. Il M5S sta vivendo una crisi da cui dipende la sua stessa sopravvivenza.

ildonatello

ARTICOLI CITATI (FONTI):

https://www.ilmoschettiere.com/l/la-batosta-in-umbria-il-trionfo-di-salvini-e-un-governo-che-non-ce/

https://www.quotidiano.net/politica/m5s-di-maio-1.4865236

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/13/sondaggi-la-trattativa-di-governo-avvantaggia-salvini-lega-vola-al-22-m5s-sotto-il-dato-delle-elezioni-il-pd-al-178/4352716/

ilblogdelleidee.home.blog/2019/03/15/la-legittima-difesa-tra-licenza-di-uccidere-e-diritto-alla-vita

https://www.linkiesta.it/it/article/2019/11/05/svimez-sud-italia-reddito-cittadinanza/44215/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/02/28/caro-di-maio-un-leader-capace-non-avrebbe-mai-lasciato-il-governo-a-salvini/5003935/

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