Il Suicidio Politico britannico: analisi della “Vittoria di Pirro” di Theresa May

Salve a tutti, oggi parleremo di come, pur arrivando primi, si possa subire una sconfitta bruciante e rischiare di lasciarci le penne (politicamente parlando). Mi riferisco alle elezioni politiche in Gran Bretagna, dove sta succedendo di tutto. Buona lettura.

Innanzitutto partiamo facendo una piccola analisi preliminare del clima pre elettorale inglese, un clima infuocato. Da una parte c’erano la May e i conservatori come propugnatori di una Gran Bretagna troppo chiusa in se stessa e dall’altra Corbyn con i laburisti, a favore di un “ritorno” agli anni 70. Al centro infine venivano posti i liberal democratici come l’unica forza politica che avrebbe potuto riempire questo “gap“. Ovviamente questa sarebbe una situazione tipicamente normale in un Paese in periodo elettorale, due parti che si scontrano e la “palude” (come veniva chiamata in Francia la parte che non si schierava e seguiva i suoi interessi nel ‘700) che rappresenterebbe la chiave di Volta della questione.

Ma in Gran Bretagna la situazione è, o meglio era, ben diversa. Perplessità proposte dalla testata giornalistica “The Economist” che coinvolge Tim Farron, leader dei liberal democratici, che viene definito come un personaggio senza carisma, senza forza mediatica, completamente piatto, non eccede nei dibattiti, insomma, un “mediocre”. Questo vuoto dipinto dalla testata inglese è presente anche a livello editoriale ed è stato, negli ultimi tempi, riempito dal “The New European“. Questo settimanale è nato una settimana dopo il Brexit e, inizialmente, il progetto era di farlo uscire per soli due mesi ma poi, viste le ottime vendite, non è stato più interrotto. La testata si rivolge principalmente al 48% dei Remains inglesi e se ha ancora successo il motivo risiede nell’esistenza di un largo bacino di elettori che però, ora, devono essere coinvolti dalla politica. A mio parere la Brexit non è più negoziabile e non si può tornare più indietro. Inoltre molti dipingevano un exploit dei laburisti, come poi è stato.

Ma passiamo alla questioni più calde, quella del terrorismo e della Brexit. La prima, che avrebbe dovuto rappresentare la strategia vincente dei conservatori e della May, ha fallito a causa di numerose contraddizioni. La May, nonostante sia considerata una donna capace e che di politica se ne intende, è parsa timorosa e confusa. Inoltre le tasse non hanno aiutato, il dietrofront su quella che è stata soprannominata la “demential tax” ha sottolineato ancora una volta la confusa politica fiscale della May. La Brexit invece ha influito negativamente non solo sulla popolazione, ma anche all’interno del Parlamento, dove gli stessi conservatori hanno fortemente criticato la scelta della May di insistere su questa manovra.

Inoltre al messaggio confuso dei conservatori ha fatto da contraltare un messaggio laburista chiaro e capace di risuonare presso ampi settori di opinione pubblica, soprattutto tra i più giovani. Jeremy Corbyn non è un politico facile, né particolarmente amato da molti dei suoi stessi colleghi di partito (che hanno più volte cercato di cacciarlo). Ma, questa volta, è apparso tranquillo, efficace nelle apparizioni pubbliche (al contrario della May, che rifiutava di apparire in pubblico), capace di fissare la campagna del Labour attorno a un tema: il rifiuto dell’austerity, il ritorno a politiche di investimento nell’educazione e nella sanità, la rinazionalizzazione di ferrovie e sistema idrico, l’aumento delle tasse per le grandi corporations e per chi guadagna più di 80mila sterline all’anno. Questo messaggio di giustizia sociale, di redistribuzione, di speranza in un futuro più benigno (anche se in molti mettono in dubbio la copertura finanziaria delle proposte laburiste) ha conquistato consensi, e seggi, ai laburisti.

Passiamo all’analisi dei dati..

Innanzitutto sono state elezioni molto partecipate, che hanno visto recarsi alle urne quasi 7 britannici su 10. La partecipazione al voto ha sfiorato il 69%, in aumento di oltre 2 punti rispetto alle elezioni di due anni fa. Si tratta del dato più alto degli anni Duemila e conferma un trend in aumento di elezione in elezione. Cosa forse sorprendente per una snap election (elezione anticipata), soprattutto se si considera che si tratta del terzo evento elettorale nazionale di rilievo in soli due anni – includendo il referendum sulla Brexit di un anno fa. Il premier Theresa May aveva proposto e ottenuto queste elezioni anticipate per chiedere agli elettori un mandato forte e chiaro. L’obiettivo dichiarato era quello di aumentare i voti e i seggi del suo partito (i conservatori) per poter negoziare i termini della Brexit con l’Unione Europea da una posizione di forza. Obiettivo miseramente fallito: i Tories sono riusciti sì ad aumentare i propri voti, e non di poco (+5,5%), ma hanno clamorosamente perso seggi, scendendo da 330 a 318 e perdendo così la maggioranza assoluta in Parlamento. La May ha comunque annunciato subito che non si dimetterà da primo ministro e proverà a formare un nuovo governo grazie all’accordo con gli unionisti irlandesi del DUP (Democratic Unionist Party) che con i loro 10 seggi bastano a superare la soglia critica dei 326 seggi (in realtà ne bastano 323 perché i deputati gallesi dello Sinn Fein non siederanno a Westminster, abbassando così la soglia). Il vero boom è quello dei laburisti, che ottengono ben 10 punti in più rispetto al 2015 e guadagnano quasi 30 seggi, strappandone molti proprio ai conservatori. Deludente il risultato dei nazionalisti scozzesi dello SNP, che puntavano a fare (nuovamente) bottino pieno come nel 2015, per poi pretendere un nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia, dopo quello – fallito, per poco – del 2014. Lo SNP perde un terzo dei voti, ma soprattutto perde 21 seggi: molti di questi sono stati persi proprio a vantaggio dei conservatori, che senza questa débacle dello SNP possono sperare di continuare a governare. Tra gli altri partiti, restano stabili i Liberal Democrats, che guadagnano qualche seggio ma continuano ad essere irrilevanti, e che devono subire la clamorosa sconfitta, nel suo collegio, di Nick Clegg (il leader che nel 2010 portò il partito al governo con i conservatori conquistando il 23% dei voti). Lo UKIP di Nigel Farage è praticamente scomparso: nel 2015 fa fu il terzo partito con quasi il 13%, oggi perde l’unico seggio che aveva e si riduce a un misero 1,8%.

Che peso avranno i risultati delle elezioni sul futuro della Gran Bretagna?

Come detto, la May ha cercato, per mantenere la maggioranza assoluta in Parlamento, un accordo con gli irlandesi del DUP, il partito degli unionisti irlandesi, che con i loro 10 seggi bastano a superare la soglia critica dei 326 seggi (in realtà ne bastano 323 perché i deputati nord-irlandesi dello Sinn Fein non siederanno a Westminster, abbassando così la soglia). Un’alleanza molto debole e non c’è bisogno che vi spieghi il perché.

Una situazione che di certo non garantisce la stabilità della Gran Bretagna. Stabilità di cui ha bisogno per condurre le trattative della Brexit. Le trattative si apriranno formalmente il 19 giugno e le scadenze saranno ravvicinate ed ardue. May aveva ricevuto il mandato dal precedente parlamento per una “hard” Brexit sull’addio al mercato unico e alla libertà di movimento delle persone. Ma adesso questa strategia è indebolita. Quelle voci, sia nel campo dei conservatori che dei laburisti favorevoli a una “soft” Brexit, si faranno sentire di più. E la May non potra più opporvisi. Il futuro ci dirà cosa succederà..

il solito saluto

ildonatello