Decreto Dignità – Come cambia il mondo del lavoro

Come riportato dai principali media nazionali, recentemente è stato approvato nel Consiglio dei Ministri il cosiddetto “Decreto Dignità, D.L. 12 Luglio 2018 n. 87. Un decreto, riguardante il complesso mondo del lavoro che, una volta portato in Parlamento, è stato approvato definitivamente al Senato (il 7 agosto), con 155 voti favorevoli, 125 contrari e 1 astenuto.

Quello che Di Maio ha definito come una “svolta storica”, ha apportato delle significative modifiche alla regolamentazione del contratto a termine e del contratto di somministrazione di lavoro contenuta nel Jobs Act.

La normativa precedente, il renziano Jobs Act, prevedeva la celeberrima possibilità di somministrare contratti a termine determinato per la durata di 36 mesi e la a-causalità di tale contratto.

L’a-causalità, introdotta con la Legge Fornero (92/2012), tra le tante cose, pone sullo stesso piano il lavoro a tempo indeterminato e a tempo determinato eliminando la causalità economica e sociale, giustificante la superiorità del lavoro indeterminato. Così facendo, viene aumentata considerevolmente la sfera discrezionale del datore di lavoro che ha più libertà di inserire o meno delle tutele giuridiche ed economiche che giustificano il lavoro dell’operaio.

La nuova legge, targata Cinque Stelle, prevede la a-causalità solo per contratti a termine fino a 12 mesi. La prosecuzione del contratto, invece, deve avvenire con causalità ben precise, fino ad un massimo di 24 mesi. Oltre ai dodici mesi di durata, dovranno concorrere altre due condizioni:

  1. Esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori.
  2. Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

Dopo questa breve introduzione, credo sia opportuno entrare nello specifico.

Innanzitutto la norma prevede la durata massima, del contratto a tempo determinato, non superiore ai dodici mesi, sottolineando come si possa stipulare inizialmente un contratto di qualsiasi durata. Ovviamente, senza indicare alcuna causale, come ho sottolineato nel paragrafo precedente. Il primo contratto può essere prorogato per un massimo di quattro volte, e non cinque, come prevedeva la legislazione precedente. Per quanto riguarda i rinnovi, viene richiesto il rigoroso rispetto delle condizioni summenzionate. Inoltre, questi, devono essere seguiti da un incremento contributivo dello 0,5%.

N.B. Il rinnovo è una condizione differente della proroga. Mentre la seconda consiste nella prosecuzione del contratto, con espresso consenso del lavoratore, il rinnovo prevede la cessazione del contratto e la stipulazione di un altro. In quest’ultimo caso tra i due contratti deve intercorrere un periodo di 10-20 giorni a seconda della durata del contratto, inferiore o superiore a 6 mesi, il cui mancato rispetto deve comportare la trasformazione del secondo in contratto a tempo indeterminato.

Il decreto, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 13 Luglio 2018, è entrato in vigore il giorno successivo, ma sulla sua applicazione è stata introdotta una moratoria (una sospensione, tale da non turbare lo svolgimento dei rapporti economici e sociali) fino al 31 ottobre prossimo.

La non retroattività della legge, potrebbe comunque comportare dei problemi di interpretazione e applicazione su alcuni contratti stipulati precedentemente o nell’anno in corso e aventi scadenza durante il periodo di moratoria. Soprattutto per un provvedimento che riguarda le condizioni di lavoro e la durata dei contratti, il caos generato potrebbe essere un grande problema a cui il Governo dovrà porre rimedio.

Altra novità del decreto dignità sono le causali, stringenti a dire il vero, che potrebbero provocare non pochi mormorii all’interno del mondo del lavoro. Alcuni esperti del settore lavorativo e della finanza avrebbero preferito, a normative stringenti, un ritorno alle classiche “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, contenute nel D.LGS. n.368 del 2001.

Le attività stagionali non prevedono l’applicazione di queste nuove norme.

Inoltre, la legge di conversione in Parlamento, ha previsto l’esonero contributivo prorogato agli anni 2019-2020, per favorire l’occupazione giovanile.

La morsa stringente sul lavoro a tempo determinato portato a 24 mesi, invece di 36, inciderà fortemente sulla programmazione degli imprenditori e delle imprese, poiché i piani erano stati concepiti su un periodo più lungo. Ciò sottintende che ci saranno anche delle ricadute sul piano occupazionale.

Come la finanza insegna, il lavoro a tempo determinato gode di regole che si connotano all’andamento del mercato, per cui varia con il variare di quest’ultimo. Nello specifico, quando il mercato cresce, si impone una stretta sul contratto a tempo determinato, quando il mercato, invece, va in difficoltà diviene conveniente allentare i vincoli della stipulazione di contratti a termine.

Inoltre, a prescindere dal mercato, l’impresa preferisce utilizzare prima il contratto a termine per conoscere meglio le attitudini del dipendente e la sua professionalità, prima di impegnarsi in un oneroso contratto indeterminato. Opposta è invece l’esigenza del dipendente che auspica ad una sistemazione certa per meglio gestire la propria vita, facendo progetti a “tempo indeterminato”. La soluzione, dunque, sarebbe una via di mezzo: un periodo di prova selettivo, seguito da contratti a termine che però sottintendono la via per il tempo indeterminato. Ma, nonostante i buoni auspici, bisogna sempre affidarsi al mercato che una volta penderà a favore del lavoratore, una volta a favore dell’imprenditore.

Il momento che l’Italia sta affrontando non è sicuramente uno dei migliori, a causa della scarsa crescita, sia economica che, di conseguenza, occupazionale. Dunque, una stretta sull’imprenditoria, in questo momento, è sicuramente una soluzione sbagliata. Infatti, a prescindere dalle proteste dell’opposizione che attacca per principio senza conoscere, l’imprenditoria non schierata politicamente, chiedeva un decreto flessibile che avrebbe concesso loro di non impegnarsi eccessivamente seguendo l’andamento della richiesta del suo prodotto sul mercato.

L’obiettivo primario che uno Stato, degno di questo nome, si debba predisporre è quello di far crescere il PIL, ossia far crescere l’attività economica e industriale. Ma questo compito spetterebbe alla classe imprenditoriale, certo, ma il Governo a sua volta, dovrebbe garantire le condizioni ideali per lo sviluppo, intuendo l’andazzo dei mercati e delle domande che si presentano periodicamente sullo stesso.

Ritengo che la stretta sui contratti a termine si dovrebbe applicare nel momento in cui tornino ad esservi opportunità di lavoro, in prospettiva, durature.

Ma, nonostante ciò, vorrei aggiungere, in conclusione, che uno Stato non dovrebbe mai accettare che un proprio cittadino trascorra tre anni in stato d’incertezza sul proprio futuro. Infatti, personalmente, ritengo che il suffisso “dignità”, derivi proprio da quest’ultima constatazione.

Infine, la somministrazione del lavoro, a cura delle agenzie somministratrici operanti presso il Ministero del Lavoro che si occupano di rispondere alla ricerca di lavoratori da parte dell’impresa, viene assoggettata alle stesse limitazioni del contratto a termine, ponendo gli obblighi previsti dalla nuova normativa sull’utilizzatore (datore di lavoro). Il tetto massimo di contratti di somministrazione è del 30%, a fronte, del tetto del 20% che prevedeva il Jobs Act.

Ora, lasciamo i tecnicismi e concentriamoci sul lato squisitamente politico del provvedimento voluto fortemente dal Ministro del Lavoro, nonché Vicepremier, Luigi di Maio.

Il decreto dignità, frutto dell’impegno del Movimento Cinque Stelle di emanare un provvedimento simbolico riguardante il difficile mondo del lavoro, ha trovato una fredda accoglienza da parte del mondo dell’imprenditoria e dei sindacati a causa della superficialità e debolezza di alcune misure. Ciò che è mancato a questo provvedimento, secondo la CGIL, è stato il coraggio di osare, di andare più in fondo alla vicenda dei contratti e della disoccupazione.

Secondo alcuni politologi di indubbia fama, l’obiettivo del decreto è stato quello di mandare un segnale per mostrare quanto l’esecutivo si impegnerà sui temi cari all’opinione pubblica.

Quest’ultima affermazione mi trova d’accordo su alcuni punti: un decreto riguardante il mondo del lavoro, ha al suo interno elementi riguardanti il contrasto alla ludopatia (malattia del gioco d’azzardo), un contenuto alquanto eterogeneo, si potrebbe replicare. Inoltre, interviene in modo molto leggero e pasticciato su alcuni importanti istituti della dottrina giuslavoristica, cambiandoli totalmente senza le opportune garanzie.

Un tema che invece ha toccato il cuore degli italiani è quello delle “delocalizzazioni”. Se da un lato è certamente lodevole l’iniziativa del Governo di voler contrastare il fenomeno di chi delocalizza le proprie imprese all’estero, dall’altro sicuramente la prospettiva sanzionatoria non basta per contrastare questo dannoso problema. Quindi, da un lato squisitamente politico, la “punizione” per chi porta investimenti fuori dall’Italia, unita ad una legislazione pasticciata e parziale, potrebbe non sortire l’effetto sperato dal Governo.

Dunque, risulta ancora più evidente l’intento del Movimento Cinque Stelle di tenere a bada il proprio elettorato tirando fuori dal cilindro un provvedimento che da un lato, rinvigorisce i lavoratori, ma dall’altro non tiene conto della situazione economica e sociale italiana, giocando contro il mercato.

Infatti, dal punto di vista economico una manovra del genere, potrebbe non bastare a combattere il precariato a causa del doppio regime di causalità e dei fatidici 12 mesi. Nel senso che gli imprenditori, saranno più incentivati a far durare il meno possibile un rapporto di lavoro, che ad assumere per lungo periodo un giovane promettente.

Infine, ritengo intelligente l’intenzione di dare un segnale forte all’opinione pubblica sul tema del lavoro, anche se c’è da sottolineare come non si possa rimandare una riforma strutturale come questa per tanto tempo. Ovviamente, l’intento propagandistico del Governo, e in particolare del Movimento, è chiaro:

Tutti devono avere la possibilità di lavorare, non è importante come.

Il messaggio è chiaro: un uomo non può vivere per ben tre anni (36 mesi – Jobs Act), nell’incertezza lavorativa poiché per costruirsi un futuro, dignitoso, c’è bisogno di certezze.

Certezze di cui necessita anche questo Governo, poiché il tempo dei proclami è finito, così come quello della propaganda. Il mondo del lavoro ha bisogno di essere regolamentato seriamente, visti i recenti sviluppi e la disoccupazione che ha raggiunto livelli assolutamente inaccettabili.

Il Governo, onde evitare di finire inghiottito dalla sua stessa pomposa retorica fine a se stessa, deve superare il guado in cui sguazza l’Italia da alcuni anni a questa parte ma deve anche andare oltre il mero annuncio ad effetto. La volontà di fare non manca, ora bisogna soltanto rimboccarsi le maniche.

Tutto per il bene dell’Italia, che ha bisogno di ritornare dove le compete e soprattutto per il bene dei cittadini, affinché possano riacquistare la loro “dignità”. 

 

ildonatello

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