La Crisi del Lavoro in Italia: Analisi di un Problema di Difficile Risoluzione

Buonasera e buona festa del Lavoro! Mentre sono in corso i festeggiamenti, l’ISTAT ci fa sapere che la disoccupazione giovanile è aumentata dello 0,2%, portandosi al 40,1%. I disoccupati italiani, ad oggi, toccano quota 3,5 milioni.

Principalmente in Italia, crisi a parte, i principali fattori che hanno influenzato (negativamente) il lavoro sono 2 :

  • LEGISLAZIONE
  • SINDACATI

Questo dice il rapporto del Global Skill Index, lo studio sul mercato del lavoro a livello globale firmato da Hays, la società di recruiting internazionale di quadri e dirigenti, insieme a Oxford Economics. Lo studio, poi riporta i dati raccapriccianti del nostro mercato del lavoro. Ma tali dati non riguardano solo i giovani. Aumenta anche la disoccupazione nazionale, che si attesta al 12%, 1,5 punti in più rispetto al 2015. Pesano su questi aumenti molti fattori, tra cui l’instabilità politica, il peggioramento della reputazione e la difficoltà del nostro mercato di attirare nuovi investitori.

Come detto sopra, lo studio ha individuato i principali problemi nella legislazione e nei sindacati. La legislazione, lo sappiamo, è la più complessa dell’Unione Europea. Mentre i sindacati, in Italia sono rimasti ai tempi della “lotta di classe”. Questi problemi rendono il nostro Paese meno competitivo e aggravano lo squilibrio tra occupati e disoccupati. C’è infatti una diretta correlazione fra leggi complicate e la alta disoccupazione. Così come va migliorata la comunicazione fra il governo, le aziende e le università o comunque fra i soggetti che devono occuparsi della formazione che pecca ancora in termini di flessibilità.

E la fuga di cervelli di certo non aiuta! Certo fa piacere sentire che all’estero gli ingegneri italiani sono considerati tra i migliori, però questo di certo non giova al nostro Paese! C’è bisogno sempre di equilibrio, soprattutto tra i Paesi in via di sviluppo e quelli industrializzati per quanto riguarda il trasferimento dei “cervelli”. Ad esempio i Paesi che si stanno industrializzando hanno bisogno di migliaia di ingegneri specializzati, provenienti da America ed Europa. Al contrario, i paesi più industrializzati avranno necessità di importare un sempre maggior numero di personale medico per assistere una popolazione sempre più avanti con gli anni. Se perpetrato, quindi, il protezionismo lavorativo sarà solo causa di tensioni e affliggerà la crescita economica mondiale. Al tempo stesso far fuggire i cervelli non aiuterà lo sviluppo economico e culturale della nazione. Ecco perché bisogna far incontrare la domanda con l’offerta.

Dopo questa lunga parentesi però concentriamoci sui due punti che ho sottolineato sopra la legislazione e i sindacati.

Iniziamo con le leggi, famose quelle italiane perché in quasi tutti i campi sono incomplete, obsolete e mai giuste. Almeno secondo la maggior parte delle persone. Chi non ha mai sentito il famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori?

Un lavoratore può essere licenziato solo per ragioni legate al suo comportamento o per motivi legati alla funzionalità dell’azienda. In pratica parliamo di licenziamenti disciplinari e licenziamenti economici. Se un funzionario giudiziario, un giudice, stabilisce che il licenziamento è illegittimo, il lavoratore deve essere immediatamente reintegrato, con indennità si intende. L’indennizzo lo stabilisce la giustizia, al resto ci pensa (o ci pensava), l’articolo 18. L’art.18 introduce l’obbligo per l’azienda di reintegrare il lavoratore. L’obbligo di reintegro sancito dall’art. 18 si applica solamente a uno specifico gruppo di lavoratori: quelli con contratto a tempo indeterminato che lavorano in aziende con più di 15 dipendenti.

La riforma Fornero prevede delle modifiche all’art. 18 basate su due concetti chiave: flessibilità del mercato del lavoro ed efficienza dei processi sui licenziamenti. 

Per aumentare la flessibilità, la riforma riduce marginalmente i costi di licenziamento eliminando quasi del tutto il reintegro per i licenziamenti per motivi economici (che rimane solo per i casi limite di “manifesta insussistenza”) e lasciando al giudice, nel caso di licenziamento disciplinare, il compito di decidere se reintegrare il lavoratore oppure dargli un indennizzo sostitutivo (mentre prima era il lavoratore a decidere tra reintegro e indennità).

L’idea di fondo del governo è che diminuendo il costo di licenziamento le imprese possano essere più flessibili e siano portate ad assumere di più. Però studi economici, ed esperienze personali, hanno dimostrato il contrario. Inoltre la mossa azzardata di diminuire i costi di licenziamento in un’epoca caratterizzata dalla recessione, può avere degli enormi costi sociali.

Dall’altro lato, la riforma cerca di diminuire il numero di processi introducendo una sorta di “conciliazione” tra imprenditore e lavoratore da avviarsi entro una settimana. Se la conciliazione non va a buon fine, si interpella l’autorità giudiziaria. Per velocizzare il resto sono state introdotte riforme processuali e una corsia “preferenziale” presso il tribunale del lavoro.

Ma la mancanza di ammortizzatori sociale e la disparità tra licenziamento legittimo e illegittimo non si va lontano. Questa riforma è molto lacunosa, e i lavoratori nella totalità dei casi si rivolgono ai giudici. Se a questo poi si aggiunge la lentezza della giustizia italiana, ecco a voi un minestrone di processi lunghi ed esiti incerti = costi alti per tutti, lavoratori e imprese.

Anche se è vero che la procedura di conciliazione può ridurre il numero di cause, è anche vero che viene aumentata la discrezionalità del giudice, il quale sara’ chiamato a decidere su un numero ancora maggiore di questioni: tra reintegro o indennizzo per i licenziamenti disciplinari; sulla presenza di “manifesta insussistenza” nei licenziamenti economici; e addirittura se il licenziamento è di carattere economico o disciplinare—un aspetto, questo, particolarmente spinoso vista la differenza di trattamento fra i due casi.

Insomma, la riforma Fornero dell’articolo 18, è a detta di questa analisi una sola. Ma, come detto prima, non è solo un problema di legislazione, ma anche di sindacati.

Come ho scritto sopra, l’Italia è rimasta uno dei pochi paesi in cui i rapporti tra lavoratori e imprenditori sono ancora improntati alla “lotta di classe” teorizzata da Marx in tempi molto diversi e non confrontabili coi nostri; un’impostazione che è stata superata e dimenticata in quasi tutti i paesi nostri concorrenti, con in testa quelli ex comunisti.

Secondo questa impostazione, il lavoro non lo crea il mercato, attraverso l’interpretazione dell’imprenditore che ne coglie e ne coltiva le opportunità. Estremizzando, il lavoro è visto invece come una specie di risorsa naturale disponibile e l’imprenditore è solo uno sfruttatore che sottrae ai lavoratori una parte dei proventi.

Questa teoria ha fatto la fortuna dei sindacati, specialmente quelli più estremisti, che hanno tenuto sempre alto il malcontento dei lavoratori per cavalcarlo a proprio vantaggio; e le conseguenze sono state devastanti.

Le principali vittime di questa strumentalizzazione sono stati gli operai. Per una fabbrica gli operai sono un patrimonio prezioso di competenze e abilità difficili da sostituire, anche quando la produzione è molto automatizzata. I sindacati, invece, hanno convinto gli operai che erano dei poveretti asserviti ad un processo produttivo; degli automi privi di iniziativa e di occasioni di gratificazione.

in Italia, i sindacati diffidavano gli operai dal formulare qualsiasi suggerimento al “nemico” e li invitavano a fare solo il proprio dovere senza dare valore aggiunto e senza prendere alcuna iniziativa. Se qualcuno dava suggerimenti all’imprenditore o lo informava di qualcosa che non andava nell’azienda, era bollato come ruffiano e servo dei padroni. Se un macchinario funzionava male bisognava lasciare che si rompesse, e allora il sindacato avrebbe potuto improvvisare uno sciopero di protesta e mettere il padrone alle corde.

Questa politica ha dato un enorme potere ai sindacati, ma ha avvilito sempre di più gli operai, che si trovavano presi tra due fuochi: il datore di lavoro che pretendeva una prestazione elevata, e i sindacati che li diffidavano dal dare più del minimo.

La perdita di produttività che ne derivava era vista positivamente dai sindacati, che, in quel periodo, si battevano soprattutto per aumentare l’occupazione; infatti, costringeva la aziende ad assumere più personale. I prodotti, anche se risultavano più costosi, si vendevano ugualmente, perché i mercati erano sostanzialmente domestici e la concorrenza estera era minima

Un altro fattore molesto è la politicizzazione dei sindacati; altra anomalia italiana. I sindacati, che erano imparentati soprattutto con la sinistra allora all’opposizione, avevano interesse a mantenere viva la tensione sociale e lo scontento dei lavoratori per portare voti di protesta ai partiti che li sostenevano ed erano a loro volta da essi sostenuti.

La politicizzazione e la ricerca del potere da parte dei sindacati hanno prodotto un altro effetto perverso: hanno fatto sì che gli stipendi degli operai perdessero terreno rispetto a quelli dei paesi vicini.

Tempo fa il segretario FIOM Landini disse candidamente che gli operai tedeschi guadagnano il doppio dei loro colleghi italiani. Non spiegò, però, che in parte ciò era colpa dei sindacati, che, piuttosto che battersi per ottenere aumenti di stipendio per tutti gli operai, preferivano chiedere “tutele” per gli assenteisti e per i lavoratori meno validi che marciavano sul filo del contratto. E che, allo stesso tempo, chiedevano normative che aumentassero il proprio potere; come il famoso “Statuto dei lavoratori” che sarebbe più giusto chiamare “Statuto dei sindacati”, perché tutela soprattutto loro. Una legge unica al mondo, estremamente sbilanciata e penalizzante per gli imprenditori, che prevede perfino, all’articolo 28, una specie di reato di “lesa maestà”: Comportamento antisindacale.

Di conseguenza, in questo clima disperante, gli imprenditori che investivano lo facevano soprattutto per automatizzare i processi e usare meno mano d’opera possibile, o, peggio, per spostare la produzione all’estero.

Per uscire dalla crisi garantendo la conservazione dell’occupazione in Italia bisogna che sindacati e i partiti che li sostengono abbandonino la strategia delle contrapposizione; una strategia sperimentata che porta voti e potere, ma impoverisce e avvilisce gli operai e mina la competitività delle produzioni italiane. Infatti, continuando per questa strada, forse le imprese più vitali sopravviverebbero, ma sarebbero costrette a delocalizzare la quasi totalità delle attività produttive creando una disoccupazione sempre più drammatica. I sindacati devono recuperare il loro ruolo di rappresentanza e difesa degli interessi dei lavoratori, abbandonando discutibili e inefficaci strategie politiche che usano i lavoratori piuttosto che metterli al centro dell’interesse. Devono imparare soprattutto a difendere gli interessi dei lavoratori non contro l’azienda, ma insieme al’’azienda e contro la concorrenza, preoccupandosi sempre di mantenere l’azienda vitale e competitiva.

Se i sindacati faranno questo passo, potranno pretendere che gli imprenditori facciano a loro volta un passo verso di loro, accettando, in un clima di cooperazione e rispetto reciproco, delle ragionevoli forme di partecipazione alla gestione delle aziende. E a questo punto, se il mondo della produzione tornerà efficiente e sereno, solo allora si potrà investire e innovare, con la certezza che questi interventi andranno a favore dell’occupazione e non contro di essa.

Altro che Festa dei Lavoro!

Incrociamo le dita e speriamo in una sorta di illuminazione divina degli “addetti ai lavori”.

Il solito saluto

ildonatello