L’Italia è il Mediterraneo ma non l’ha ancora capito

L’Italia ha legato storicamente il suo destino a quello del mare. Una penisola geograficamente centrale in un mare di opportunità oppure, come dicevano gli americani “una portaerei nel Mediterraneo”. Insomma, per il nostro Paese, per la sua storia, è chiaro che quella del mare rappresenti più che una semplice strada.

Si dice che la geografia sia casuale ma che il destino che ne derivi no. Il Regno Unito, per esempio, seppe sfruttare alla perfezione la sua condizione insulare, che la proteggeva da attacchi indesiderati, mettendo in piedi una grande flotta per regalare al mondo uno degli imperi più potenti della storia. Lo stesso discorso vale anche per gli Stati Uniti, il cui dominio mondiale, più che sull’esercito, si basa sulla capacità di sfruttare alla perfezione la geografia attraverso il controllo delle rotte, degli stretti e delle isole strategiche.

E l’Italia? D’altronde il Mediterraneo, nonostante la preminenza degli oceani nello scacchiere geopolitico mondiale, rappresenta ancora un punto privilegiato della scena internazionale. Il Belpaese, come è possibile notare, si trova al centro del bacino del Mediterraneo ed è immerso per 3/4 nel mare. Si presume che la sua politica estera sia tutta incentrata sul mare. Non è così.

Quel popolo di “santi, poeti e navigatori” ha da tempo perso la sua vocazione marittima per lasciare spazio a una flebile e controproducente politica “dell’interesse nazionale” atta sistemare la situazione interna prima di intervenire all’estero. I risultati sono stati scadenti. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, l’Italia ha deliberatamente abbandonato ogni interesse per la cosa estera, chiudendosi su sé stessa e perdendo il treno verso la globalizzazione. Perché la globalizzazione se non la fai, la subisci. E l’Italia l’ha subita.

Negli anni ’30 la situazione era molto più complessa rispetto a quella odierna. L’Italia si affacciava sulla scena internazionale per la prima volta da “grande potenza” ma il Mediterraneo era già “saturo” di contendenti. La Royal Navy controllava le rotte, le isole strategiche (come Malta e Cipro) e gli stretti. E poi c’era anche la Francia che, con le colonie del Nord Africa e la Tunisia, aveva una “pistola puntata” verso l’Italia.

Le ambizioni del regime, stando alla situazione internazionale, erano esagerate e non soltanto per la disparità di forze con gli inglesi. Anche il Giappone, comunque, non poteva competere con gli Stati Uniti sotto ogni punto di vista ma, a differenza degli italiani, aveva ben compreso come si dovesse puntare più sulla flotta che sulla terra.

Seppur negli anni ’30 la corsa al riarmo italiana comprese anche il varo di alcune corazzate e diverse classi di navi minori, l’impressione fu che il fascismo fosse più interessato a curare l’apparenza, cullandosi in una condizione di “grande potenza” solo nominale. A questo proposito viene in soccorso la trasvolata atlantica del Maresciallo Balbo che trasmise al mondo l’impressione che l’Italia fosse all’avanguardia nel “fattore aereo”. Un’impressione, appunto.

L’indecisione fu fatale. Sicuramente altri fattori contribuirono allo sfacelo del regime, ma limitatamente alla politica estera, il lavoro dello stesso fu confusionario, tra l’incapacità di leggere tra le righe del momento storico e la scarsa considerazione internazionale di cui godeva il Paese (situazione che il regime ereditò dall’Italia liberale).

La diplomazia democristiana, ancora legata alle vicissitudini ottocentesche, impostò la resa sulla base che il Fascismo fosse stato solo un incidente di percorso. Il re e Badoglio credevano di aver trovato un interlocutore negli inglesi i quali, dal canto loro, non avevano nessun interesse a perdonare l’Italia, anzi. Le intenzioni di Churchill erano chiare: cancellare la minaccia italiana dal Mediterraneo e impartirle “una lezione”.

Alla fine prevalse la linea degli americani. Roosevelt prima e Truman dopo compresero l’importanza geografica dell’Italia, al centro del Mediterraneo, e come difesa ultima contro il comunismo.

La diplomazia ebbe comunque un ruolo importante ma sicuramente minore rispetto a quanto è stato tramandato dalla storia. Gli americani si mostrarono indulgenti soltanto nella misura in cui gli italiani erano disposti ad obbedire. Il sistema politico nostrano, debole e difettoso, impediva agli alleati di fidarsi. Americani, inglesi e francesi vedevano nell’Italia un interlocutore debole, il cui unico “pregio” era quello di possedere un capitale geopolitico strategico.

Durante la seconda parte del secolo breve, l’Italia comunque riuscì a ritagliarsi un piccolo spazio tra l’ortodossia americana e una più autonoma politica estera nel Mediterraneo. Ma i vertici sapevano benissimo che questa libertà di movimento era data da una particolare architettura internazionale, quella bipolare, in cui l’impossibilità di una guerra aperta permetteva a piccole ma ambiziose potenze i famosi “giri di valzer” che hanno reso celebre la politica estera del nostro Paese.

Il crollo di questo sistema ha rappresentato una battuta d’arresto per l’Italia. Le guerre degli anni ’90 hanno costretto il Paese a fare i conti con un clima diverso, in cui ogni guerra era possibile. Non solo, le vicissitudini interne (il cosiddetto “interesse nazionale”) hanno prevalso su quelle esterne. Così facendo il Mediterraneo, quella posizione geografica che aveva premiato l’Italia nel secondo dopoguerra, era diventato un “peso”.

Tra queste vicissitudini interne possono essere tranquillamente compresi tutti quei problemi che il Paese si porta dietro da tempo immemore: il trasformismo italiano, le antiche tradizioni clientelari, l’inefficienza della macchina pubblica e l’ignoranza della classe dirigente.

Queste difficoltà non vennero cancellate con la Guerra fredda, ma solo nascoste e sono esplose con la fine dell’ordine bipolare. Il sistema Paese contava poco, per fare una degna politica estera, un giro di valzer dopo l’altro, bastava poco: una buona dose di iniziativa governativa, un lavoro di diplomazia e d’intelligence.

A un certo punto tutto questo non bastava più. Il disimpegno degli americani, la maggior libertà d’azione della Russia, le pretese egemoniche della Turchia e degli altri Paesi che a lungo hanno subito il giogo del bipolarismo hanno creato un quadro totalmente nuovo e disarmante.

Senza leadership riconosciute e logiche di schieramento “contare” è diventato difficile. Con la globalizzazione e l’internazionalizzazione degli interessi, la politica estera si fa ancora più “scienza” di quanto non lo sia già.

La scienza ha bisogno di scienziati. La cosa estera ha bisogno di chi è in grado di elaborare una strategia multidimensionale. I conflitti non sono più isolati, lontani da casa come quello in Vietnam o in Afghanistan e soprattutto non hanno più le caratteristiche che conosciamo tutti.

Le cose si fanno più difficili se consideriamo che il sistema politico italiano è di gran lunga inferiore rispetto ai suoi competitor. Il governo non è in grado di muoversi in autonomia, di fare politica estera senza gli intralci dell’inefficienza parlamentare. E in un periodo dove il tempo è denaro, la lentezza pesa due volte.

La scarsa considerazione per il mare, e per la cosa estera in generale, ha indebolito fortemente la già precaria posizione dell’Italia all’interno delle intricate dinamiche internazionali. Il turco è alla porta, i russi, tenuti fuori dai mari caldi durante la Guerra fredda, hanno fatto il loro ingresso nel Mediterraneo e la Cina investe ingenti risorse nei settori strategici degli sfilacciati staterelli europei.

Gli interessi italiani nella regione sono chiari, i vuoti di potere in cui inserirsi pure. La Libia, da sempre avamposto italiano e hub energetico fondamentale, è stata presa d’assalto dalle milizie mercenarie russe, dai combattenti turchi e dalla bramosia di potere che la scarsa lungimiranza degli occidentali hanno provocato. In più, l’Italia ha appaltato ogni iniziativa all’ONU senza concepire alcuna coerente azione nazionale. Una cosa inconcepibile per un Paese cruciale per l’equilibrio del Mediterraneo centrale e a poche centinaia di km dalla nostra costa.

Ci sono anche i Balcani, zona altamente instabile e dove la presenza italiana è flebile. Stesso discorso per il Mediterraneo orientale, in cui l’ENI coltiva interessi energetici senza la complicità dello stato e per questo insidiata dalla Turchia. Per non parlare del Medio Oriente, dove, almeno una volta, l’Italia era vista come mediatrice tra le istanze locali e americane, in nome di quello spazio che il neo-atlantismo si era ritagliato in politica estera. Se da un lato è sbagliato idolatrare eccessivamente il passato, è pur vero che in questi ultimi vent’anni nessuno è stato in grado di produrre una strategia.

Gli interessi italiani necessitano, dunque, di un’assidua attività di governo in politica estera, affidata non al caso bensì a un forte coordinamento tra i vari corpi dello Stato. Una classe dirigente lungimirante deve innanzitutto concepire la posizione geografica dell’Italia non come un ostacolo bensì come un punto di forza.

In seconda istanza, in un modo ultra-competitivo e dove l’unione fa la forza, l’Italia, deve essere in grado di esercitare un ruolo bipartisan come portatrice delle istanze dei più deboli e garante dell’ordine mediterraneo. Inoltre, un ruolo più attivo nel processo di integrazione europea non guasterebbe.

Perché la geografia è casuale ma il destino che ne deriva, no.

Donatello.

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